arsenio
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domenica 9 agosto 2020
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‘muoio quando voglio’
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Di Pacifico Arsenio
Psicosi di altri tempi (il potere degli adulti sulla visione della vita dei bambini) ma sempre attuale. Questo è il classico film verso cui trovi la popolazione spaccata a metà: osannato e amato soprattutto dai giovani e considerato deprimente e noioso per chi è già nel mezzo del cammin della sua vita. Io, che non sono più giovane, ma non ancora di mezza età, posso dire di inserirmi a metà strada, ho faticato ad apprezzarlo, a capirlo nella prima metà, dalla seconda in poi sono stato divorato.
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Di Pacifico Arsenio
Psicosi di altri tempi (il potere degli adulti sulla visione della vita dei bambini) ma sempre attuale. Questo è il classico film verso cui trovi la popolazione spaccata a metà: osannato e amato soprattutto dai giovani e considerato deprimente e noioso per chi è già nel mezzo del cammin della sua vita. Io, che non sono più giovane, ma non ancora di mezza età, posso dire di inserirmi a metà strada, ho faticato ad apprezzarlo, a capirlo nella prima metà, dalla seconda in poi sono stato divorato. Se non avessi avuto sincera curiosità verso gli autori (anche poeti e fotografi, ho trovato veramente bello il libro di poesie ‘Mia madre è un’arma’) può darsi che lo avrei interrotto per riprenderlo alle calende greche, vista la mole e la quantità dei film presenti nella mia wish list.
Ormai non permetto più al rispetto che nutro per un autore di divorare il poco tempo libero a disposizione. Ma “Favolacce” va contemplato come un quadro, è un manifesto di poetica, è una dichiarazione di solitudine, di follia pura e allo stesso tempo di allucinante realismo. Una scrittura fluida, scorrevole, con la giusta dose di immagini, di detto e non detto, del non senso della nostra esistenza, dell’impossibilità di giustificarla. Un film che si può definire anche sperimentale vista la mutazione continua di linguaggi e registri stilistici che vanno dal monologo del diario, alla meditazione di campi larghi, decisi primissimi piani e una circolarità più da romanzo che da cinema. Un’opera “densa”, dunque, dove campeggia anche una forte critica sociale, una satira contro i conformisti piccolo borghesi. Vedi come i D’Innocenzo, e tanti autori prima di loro (ma non è una colpa né un paragone) , usano l’espediente del manoscritto: un uomo (non lo vedremo mai, ma siamo tutti noi) trova accidentalmente il diario di un certa Alessia, e ci dice averlo proseguito. Uno strano malessere parte in sordina per trasformarsi in veri attacchi di panico che assalgono la storia e si impadroniscono di scene memorabili, quasi come un demone che possiede un corpo. ‘Favolacce’ ha l’essenza del grasso, dell’unto, del molliccio e dell’umido fastidioso, del vuoto che ci circonda. Pupille cieche e biancastre che non vedono né possono comunicarci emozioni. Indimenticabile e curiosa è la figura del campagnolo, più simile a uno scimmione che a un padre, che riesce involontariamente a salvare il suo cucciolo con la sola forza dell’indifferenza al mondo altrui. Degni di nota come personaggi sono il professore di scienze e la ragazza platinata e incinta: una alternativa alla disperazione ed alla follia. Un film veramente complesso e altrettanto consigliato.
Pacifico Arsenio
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gioliv
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venerdì 14 agosto 2020
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i nipoti di cleopatra
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Vedendo e rivedendo per la seconda volta l'ottimo Favolacce dei fratelli D'Innocenzo con Elio Germano mi viene in mente Cleopatra, la primogenita di Peppino (Alberto Sordi) lo stracciarolo e Antonia (Silvana Mangano) del film "Lo scopone scientifico" di Luigi Comencini del 1972. Girato nel Borghetto Latino di Roma, l'adolescente Cleopatra avvelena con un veleno per topi quelli (Bette Davis, la miliardaria americana e Joseph Cotten, autista tuttofare ed ex-amante della miliardaria) che considera i responsabili della ossessione dei suoi genitori. Mi fa pensare che, trascorsi cinquanta anni, gli adolescenti del film Favolacce siano i nipoti di Cleopatra che vogliono farla finita, anche loro grazie a un veleno, con le ossessioni dei loro genitori senza uccidere nessuno sperando che tutto, non avendo un senso, abbia perlomeno una fine.
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Vedendo e rivedendo per la seconda volta l'ottimo Favolacce dei fratelli D'Innocenzo con Elio Germano mi viene in mente Cleopatra, la primogenita di Peppino (Alberto Sordi) lo stracciarolo e Antonia (Silvana Mangano) del film "Lo scopone scientifico" di Luigi Comencini del 1972. Girato nel Borghetto Latino di Roma, l'adolescente Cleopatra avvelena con un veleno per topi quelli (Bette Davis, la miliardaria americana e Joseph Cotten, autista tuttofare ed ex-amante della miliardaria) che considera i responsabili della ossessione dei suoi genitori. Mi fa pensare che, trascorsi cinquanta anni, gli adolescenti del film Favolacce siano i nipoti di Cleopatra che vogliono farla finita, anche loro grazie a un veleno, con le ossessioni dei loro genitori senza uccidere nessuno sperando che tutto, non avendo un senso, abbia perlomeno una fine.
Favolacce oltre che a recuperare e virare la visione, a volte cupa, di Luigi Comencini oppure di Mario Monicelli (soprattutto del film "Un borghese piccolo piccolo" del 1977) è un campanello di allarme su quello che frulla nella testa dei nostri adolescenti. Grazie ai fratelli D'Innocenzo che hanno alzato il velo ipocrita sulla condizione degli adolescenti e dei loro genitori (i figli di Cleopatra) rappresentata banalmente nella stragrande maggioranza delle opere del cinema italiano di questi anni.
Favolacce ha ampiamente meritato il premio Orso d'Argento per la migliore sceneggiatura al Festival di Berlino di questo anno. E' un segno di continuità con le memorabili sceneggiature de "Lo scopone scientifico" di Rodolfo Sonego e del "Un borghese piccolo piccolo" di Sergio Amidei e Mario Monicelli tratta da un libro di Vincenzo Cerami.
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luca barker
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domenica 16 agosto 2020
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un dirompente canto sgolato
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Favolacce, che annovera un Elio Germano in stato di grazia, è un trattato di filosofia nel formato di un film da 90 minuti. Irruento, cruento ma anche estremamente ironico e intelligente: acquista i connotati comici tipici della sottocultura freak americana: C’è un tocco di David Foster Wallace nel sapere come narrare, sfogandosi spesso nel flusso di relitti scampati a una furia devastatrice.
L'ira logica dei D’Innocenzo si abbatte senza pietà su una trama inerme, percorsa per sottrazione, tramutandola in altrettante sfide al senso comune del pudore (chi in Italia ha avuto mai il coraggio di mettere in scena una sequenza come quella in cui i personaggi di Germano e Malatesta infuriano la loro perversione nei confronti del genere femminile? Non ne ho davvero ricordo).
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Favolacce, che annovera un Elio Germano in stato di grazia, è un trattato di filosofia nel formato di un film da 90 minuti. Irruento, cruento ma anche estremamente ironico e intelligente: acquista i connotati comici tipici della sottocultura freak americana: C’è un tocco di David Foster Wallace nel sapere come narrare, sfogandosi spesso nel flusso di relitti scampati a una furia devastatrice.
L'ira logica dei D’Innocenzo si abbatte senza pietà su una trama inerme, percorsa per sottrazione, tramutandola in altrettante sfide al senso comune del pudore (chi in Italia ha avuto mai il coraggio di mettere in scena una sequenza come quella in cui i personaggi di Germano e Malatesta infuriano la loro perversione nei confronti del genere femminile? Non ne ho davvero ricordo).
I D’Innocenzo sono prima di tutto scrittori. Scrittori sontuosi. Mettono in luce un piglio dadaista e un'allegria allucinogena che di volta in volta può ricordare un Quentin Tarantino spassoso o un primo Paul Thomas Anderson. Ma è proprio alla regia che imperversano nelle loro dilanianti passioni, tutte ragionevolmente visibili: dalla fotografia languida e già inimitabile alla poesia sincopata e mutante di diverse scene che nascono serie ed esplodono in una comicità zoppicante che ci lascia nel dolce amaro in bocca che per i Fratelli la vita sia una boutade caotica, illogica, dimessa ma comunque irrinunciabile.
Chiaramente un cinema pensante come il loro può essere visto soltanto dai pochi radicali in circolazione (Fofi, Pezzotta, Canova), mentre dilagano letture semplicistiche, elementari paragoni, invidie misere e iettatorie.
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carlosantoni
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sabato 8 agosto 2020
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non è un paese per bimbi
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L’uso del dispregiativo “Favolacce”, al posto di un semplice “Favole”, o magari di un “Favole nere” (ché con questa formula abusata in genere la critica definisce la sostanza del film) potrebbe suonare quasi ironico, ma se così fosse trarrebbe in inganno: deve suonare per quel che è, un dispregiativo assoluto. E semmai la flessione apparentemente ironica del titolo deve mettere in guardia e indurre a pensare a una definizione che allude intenzionalmente al sadismo che si riflette nel/nei racconti narrati.
Che questo sadismo sia consapevole o meno conta poco, quel che conta è che è ampiamente presente nella narrazione; anzi, a ben vedere pesa di più proprio perché perpetrato soprattutto inconsapevolmente, da genitori privi di coscienza, di senso vero della vita e in particolare del rapporto genitoriale.
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L’uso del dispregiativo “Favolacce”, al posto di un semplice “Favole”, o magari di un “Favole nere” (ché con questa formula abusata in genere la critica definisce la sostanza del film) potrebbe suonare quasi ironico, ma se così fosse trarrebbe in inganno: deve suonare per quel che è, un dispregiativo assoluto. E semmai la flessione apparentemente ironica del titolo deve mettere in guardia e indurre a pensare a una definizione che allude intenzionalmente al sadismo che si riflette nel/nei racconti narrati.
Che questo sadismo sia consapevole o meno conta poco, quel che conta è che è ampiamente presente nella narrazione; anzi, a ben vedere pesa di più proprio perché perpetrato soprattutto inconsapevolmente, da genitori privi di coscienza, di senso vero della vita e in particolare del rapporto genitoriale.
Favolacce è un film di bambini soli, smarriti, abusati, violati da genitori-orchi, da genitori-lupi. I fratelli D’Innocenzo raccontano fiabe come i fratelli Grimm, e come spesso nelle fiabe di quest’ultimi, i figli sono soli a se stessi, di fronte a un mondo che non aspetta altro che di nutrirsi di loro, annientandoli. La differenza ambientale, e direi antropologica, tra i contesti delle fiabe narrate dalle due coppie di fratelli, è che le fiabe dei Grimm si collocano in una Germania secentesca abbrutita da guerre, devastazioni, estrema indigenza, un contesto nel quale i bambini sono spesso abbandonati dai loro genitori in mezzo al bosco, praticamente dati in pasto ai lupi o alle streghe, perché non più in grado di sfamarli. La fame feroce, l’istinto di sopravvivenza, vincono perfino sull’amore per i propri figli: i Grimm ci mettono di fronte alla realtà di questa disumana bestemmia.
Il contesto delle favolacce dei fratelli D’Innocenzo è ben diverso: qui si parla dell’oggi, dell’abbrutimento morale, e sociale, di una piccola o media borghesia che vive (salvo il caso del ragazzo-padre e di suo figlio) in villette a schiera nella periferia romana di Spinaceto. Qui semmai, la fame è fame di status sociale, di riconoscimento sociale, di “traguardi nella vita”. Si vuole apparire ad ogni costo, e soprattutto si pretende, con feroce ottusità, di conformare i propri figli in età pre-adolescenziale ai nostri marci ideali da “gente arrivata” … Che poi gente arrivata non è, e per questo vive in preda a paranoie e aggressività malamente represse. Illuminante e terribile, tra le altre, la scena in cui la madre (Barbara Chichiarelli) taglia con un rasoio elettrico i bei capelli della sua bambina, che subisce attonita e triste, semplicemente per poterle poi applicare una parrucca nera alla Louise Brooks! Quanta violenza fisica, e soprattutto morale, in questo appropriarsi del corpo della bimba per modellarlo a proprio piacimento, quanto disconoscimento della persona che ha davanti a sé e che è sua figlia! Lo stesso modello di sopraffazione da genitore con le fauci spalancate e le zanne bene in vista, a figlio o figlia totalmente disarmata e soggiacente, si ha quando il ragazzo-padre pretende che il figlio sappia guidare con grinta la sua auto, proprio come sa fare lui, o sia per forza allegro e seducente con la sua amichetta, proprio come lui cerca di esserlo con la mamma della bimba.
Il film ci parla dell’abisso in cui ci fa sprofondare il nostro pensiero unico, fatto di consumismo e conformismo. L’abisso in cui sprofonda una società che non sa più riconoscersi come tale, ma si auto-avverte come composta di bestie selvatiche individualmente in lotta per la sopravvivenza, le une contro le altre, avendo introiettato nella maniera più stolida il peggio del peggio del darwinismo sociale.
La trovata – quella sì davvero fiabesca, e anche un po’ manzoniana – è quella di narrare il film come conseguenza di un manoscritto rinvenuto: il diario di una bambina, che a un certo punto improvvisamente s’interrompe, chissà perché si chiede lo spettatore prima di essere arrivato alla fine, letto dalla voce narrante di Max Tortora… Un’altra trovata a parer mio genialmente fiabesca è quella di aver inserito, ad un certo punto delle storie narrate, la presenza fulminante del professore in via di licenziamento, interpretato in maniera magistrale e inquietante da Lino Musella: è evidentemente la trasposizione dell’orco delle fiabe, o forse addirittura del diavolo, è lui che fornisce ai ragazzini la chiave per una eventuale “soluzione finale”.
Che dire degli attori? In testa a tutti per bravura manco a dirlo Elio Germano, sconcertante nelle scene finali, atroce nel suo smarrimento e dolore, che tuttavia non riescono a fargli superare la sua stolida aridità morale e la sua vigliaccheria di fronte ai doveri più elementari e imprescindibili. Di una bravura lancinante. Ma bravissimi anche Max Malatesta e lo straordinario Gabriel Montesi, il ragazzo-padre, che vive in quella casetta raffazzonata e che per totale immaturità immagina e pretende che suo figlio dodicenne sia un macho come lui, un suo amico di bisbocce, uno sciupafemmine, mentre nel letamaio dell’interno in cui vive, si comporta più come un redneck del Tennessee o della Georgia che come un coatto della periferia romana: sempre pizze schifose mangiate a letto, crocchette di chissà cosa da sgranocchiare nella laida penombra, birre da tre soldi, automobile scalcinata…
Bravi anche i bambini, tra i quali, secondo me, rifulge la tredicenne Giulietta Rebeggiani.
Due parole sulla fotografia, notevole: soprattutto i primissimi piani sui volti dei protagonisti, spesso deformati da qualcosa che assomiglia a un ringhio belluino, le riprese notturne, le riprese dal basso, alla Orson Welles, dei bambini che camminano…
Anche la colonna sonora è speciale, e inusuale,fatta di piccoli suoni pizzicati, graffiati, appena accennati, aderente al contesto narrativo per l’inquietudine sottile che crea, cui si accompagnano i versi tristi della canzone “Bisogna morire”.
Da non perdere. Da digerire.
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mauridal
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martedì 2 giugno 2020
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i terribili fratelli
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Un film scritto e diretto da due fratelli, situazione che ha illustri precedenti e direi una storia lunga nella cinematografia. A partire dai Lumiere, passando per i Coen , per i fratelli Taviani, ancora per i Vanzina, , per finire con i Manetti Bros appunto. I due fratelli D Innocenzo , sono una conferma quindi di come una identità di singoli fratelli possa esprimersi nell’arte della cinematografia , che però coinvolge e si rivolge non tanto ai singoli individui ma alla comune identità collettiva di più persone estranee ,sconosciute tra loro ma accomunate contemporaneamente dalla visione di un film.
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Un film scritto e diretto da due fratelli, situazione che ha illustri precedenti e direi una storia lunga nella cinematografia. A partire dai Lumiere, passando per i Coen , per i fratelli Taviani, ancora per i Vanzina, , per finire con i Manetti Bros appunto. I due fratelli D Innocenzo , sono una conferma quindi di come una identità di singoli fratelli possa esprimersi nell’arte della cinematografia , che però coinvolge e si rivolge non tanto ai singoli individui ma alla comune identità collettiva di più persone estranee ,sconosciute tra loro ma accomunate contemporaneamente dalla visione di un film. Un mistero dunque di come possa nascere in due fratelli , addirittura gemelli come nel caso di Fabio e Damiano D’Innocenzo, una coincidente visione della realtà da raccontare , a favore di un pubblico di spettatori non certo soltanto parenti o amici degli autori, ma sicuramente amici fraterni del cinema . Da qui forse il mistero si chiarisce , nella visione del film favolacce , poiché la storia narrata non è la realtà vissuta direttamente dai due autori, ma un richiamo di storie ascoltate , anche immaginate nella mente di ragazzini , di adolescenti anche bambini che osservano, ascoltano il mondo degli adulti, che sono i genitori, per primi, e poi tutta la varia umanità buona o cattiva, malvagia o docile con cui vengono in contatto. Dunque più che una favolaccia, si racconta una storiaccia di genitori che non lo sono, in senso affettivo, educativo o di buon esempio per la vita di future generazioni. Il film è una dichiarazione di sfiducia verso gli adulti genitori falliti o mancati, sfiducia tragicamente poi dimostrata da figli bambini , oppure adolescenti che lasciati soli si auto distruggono e dunque scompaiono . Intanto il linguaggio narrativo non è un realismo verista, ma direi più onirico e immaginario , poiché il racconto si svolge come un diario di una ragazzina che appunto descrive le storture e le violenze familiari. Intanto è probabile che i registi abbiano tratto dai loro ricordi di infanzia o adolescenziali, le storie narrate , ma sicuramente il film procede per immagini come un collage di situazioni ,personaggi , luoghi volti non necessariamente legati in successione . Il dialetto romanesco parlato ,farfugliato non sempre aiuta il racconto ,ma l’esperimento narrativo è interessante, il ritmo si allunga nel finale per chiudere nel silenzio del volto dell’unico attore che recita sul serio, Elio Germano ,efficace nel personaggio di padre incapace, inadeguato a crescere i figli. Un film che non pretende di essere una denuncia o un racconto psicologico, consegna al pubblico una rimessa narrativa di immagini e storie liberate dai due registi, fautori di una probabile novella corrente del cinema italiano. (mauridal)
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stefano capasso
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lunedì 25 maggio 2020
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il mondo degli adolescenti
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Nella torrida estate della periferia romana una piccola comunità di vicini si incontra per trascorrere insieme momenti di svago. Li accomuna il fatto di avere dei figli adolescenti che frequentano la stessa scuola. Dietro un apparente clima di cordialità si nascondono le tensioni dei singoli individui e dei gruppi famigliari che finiscono per avere i ragazzi come capro espiatorio.
I fratelli d’Innocenzo mettono in scena una fiaba macabra che racconto il disagio esistenziale degli adulti e degli adolescenti. La recitazione estraniata, a volte grottesca, la stessa messa in scena che ricalca queste tendenze, sembra voler porre il racconto dalla parte dei ragazzi. D’altra parte è proprio dal diario di uno di loro che nasce la storia, condotto dalla voce fuori campo di chi ha ritrovato quel diario.
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Nella torrida estate della periferia romana una piccola comunità di vicini si incontra per trascorrere insieme momenti di svago. Li accomuna il fatto di avere dei figli adolescenti che frequentano la stessa scuola. Dietro un apparente clima di cordialità si nascondono le tensioni dei singoli individui e dei gruppi famigliari che finiscono per avere i ragazzi come capro espiatorio.
I fratelli d’Innocenzo mettono in scena una fiaba macabra che racconto il disagio esistenziale degli adulti e degli adolescenti. La recitazione estraniata, a volte grottesca, la stessa messa in scena che ricalca queste tendenze, sembra voler porre il racconto dalla parte dei ragazzi. D’altra parte è proprio dal diario di uno di loro che nasce la storia, condotto dalla voce fuori campo di chi ha ritrovato quel diario. La visione del mondo proposta è quella mai abbastanza rassicurante che è tipica degli adolescenti: ogni cosa può essere un pericolo, o fonte di disagio; vivere le esperienze che la vita ogni giorno propone è spesso faticoso, e la mancanza di un appoggio sicuro, come quello che dovrebbe essere degli adulti, finisce per far precipitare definitivamente i ragazzi nel loro mondo fatto di incubi
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vanessa zarastro
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sabato 11 luglio 2020
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charlie brown a spinaceto
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“Favolacce” è uno squarcio di mondo della periferia sud romana con tipologie diverse dell’abitare, viste con gli occhi dei bambini. Una sorta di “Peanuts” dove il milieu però è ben diverso da quello della tranquilla middle class americana narrata da Charles M. Schulz.
Raccontato in prima persona da Dennis (con la voce di Max Tortora) un ragazzino che apparentemente ha solo 11 o 12 anni, “Favolacce” evidenzia il disagio dei giovani nei diversi rapporti con i genitori in quel tipo di famiglie.
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“Favolacce” è uno squarcio di mondo della periferia sud romana con tipologie diverse dell’abitare, viste con gli occhi dei bambini. Una sorta di “Peanuts” dove il milieu però è ben diverso da quello della tranquilla middle class americana narrata da Charles M. Schulz.
Raccontato in prima persona da Dennis (con la voce di Max Tortora) un ragazzino che apparentemente ha solo 11 o 12 anni, “Favolacce” evidenzia il disagio dei giovani nei diversi rapporti con i genitori in quel tipo di famiglie. Dalla villetta bifamiliare dove Dennis (Tommaso Di Cola), vive con la sorella e la madre, mentre l’aggressivo e frustrato padre (un bravissimo Elio Germano) gonfia una piscina di gomma nel giardino, alla baracca prefabbricata nel verde dove vive Geremia (Justin Kurovnin) con suo padre Amelio (Gabriel Montesi). Lì vicino, sempre a Spinaceto, abita una loro amica, Viola (Giulia Melillo), che ha qualche difficoltà di apprendimento e anche, una ragazza incinta in attesa del fidanzato.
La scuola unifica ma solo apparentemente: per i bambini è il luogo di socializzazione, ma senza essere livellati.
Lo spazio architettonico di una città è spesso considerato nella sua accezione di macrocosmo organizzato che rappresenta il territorio su cui insiste, un vasto sistema di segni e forme che dà vita ad un tessuto connettivo riconoscibile e riproducibile. Questo quartiere di periferia, invece, è un microcosmo che non riesce a unificare le esperienze, dilata le percezioni di chi vi risiede e non diventa mai uno spazio misurabile e vivibile, ma solo un luogo d’incontro/scontro delle esperienze quotidiane.
La vicenda narrata coralmente si svolge durante tutta un’estate romana, tra la chiusura della scuola e la sua riapertura. Sotto un’apparenza di vita usuale si celano ipocrisie, rivalità e invidie, ed esistenze che vanno avanti per forza d’inerzia.
Così come era stato per “La terra dell’abbondanza” le persone che vivono in queste zone non sono né buone né cattive, sono persone primarie che vivacchiano così il quotidiano, senza ideali né valori etici. Il film appare mono-tono nel senso che qualsiasi cosa succeda, dall’azione giornaliera ripetuta alla tragedia inaspettata, viene vissuta sempre con la stessa gradazione.
Questo cinema di realismo allucinato può essere considerato uno spietato ritratto anti-narrativo in senso tradizionale, mentre sono le stesse immagini a essere pura narrazione, commentate dal sonoro delle assordanti cicale.
I Fratelli D’Innocenzo, vincitori per la sceneggiatura dell’Orso d’argento al Festival di Berlino 2020 (già coautori anche della sceneggiatura di “Dogman”), in questo secondo lungometraggio da registi, usano un linguaggio visivo estremo di pasoliniana memoria - dai primissimi piani dei protagonisti, ai dettagli apparentemente insignificanti - e storpiano, talvolta, le immagini per farle apparire come incubi ad occhi aperti. Sono inoltre maestri del fuori campo, infatti nessuna violenza si consuma davanti agli occhi dello spettatore, talvolta è allusa, percepita nello sguardo inorridito del protagonista.
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barbara genise
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domenica 30 agosto 2020
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storia di una società autistica
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Reazione immediata, lo ammetto....rifiuto, orrore emotivo, bocciatura immediata.....immagini che cambiano inquadrature, momenti, paesaggi,situazioni, personaggi..... Diversi giorni sono trascorsi senza riuscire a scacciare dalla testa la sofferenza inconsapevole, quasi animale di quei bambini, pensando alle caprette che nascono e verranno poi macellate nei mattatoi. Bambini nati e vissuti nella confusione relazionale, nel degrado affettivo e culturale, dove la cultura non ha nulla a che vedere con la scuola (vedi i 10 in tutte le materie), e dove le sequenze del film ci raccontano di una frattura tra tutti i personaggi di questa favola nera... Non c'è comunicazione tra nessuno.
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Reazione immediata, lo ammetto....rifiuto, orrore emotivo, bocciatura immediata.....immagini che cambiano inquadrature, momenti, paesaggi,situazioni, personaggi..... Diversi giorni sono trascorsi senza riuscire a scacciare dalla testa la sofferenza inconsapevole, quasi animale di quei bambini, pensando alle caprette che nascono e verranno poi macellate nei mattatoi. Bambini nati e vissuti nella confusione relazionale, nel degrado affettivo e culturale, dove la cultura non ha nulla a che vedere con la scuola (vedi i 10 in tutte le materie), e dove le sequenze del film ci raccontano di una frattura tra tutti i personaggi di questa favola nera... Non c'è comunicazione tra nessuno...... Ognuno infatti è rinchiuso nel suo mondo blindato da paranoie e credenze, finte relazioni e disagio, un disagio che spacca lo schermo e ti arriva, con la tristezza e la disperazione infinite e struggenti dei due fratellini....come non pensare al ragazzino che indugia e deve fare la pipì, dopo essere stato svegliato alle 4 dalla sorellina, come non pensare agli occhi della sorellina che esprimono, senza una sola parola, tutta la confusione e la disperazione esistenziale in un un mondo che non comprendono e dà loro solo sofferenza immensa....Un mondo autistico, dove l'incomunicabilità è la protagonista incontrastata di questa favola paradossale e reale allo stesso tempo. Magnifici tutti i personaggi, dagli adulti ai bambini, il messaggio brutale ma, in ultima analisi, costruttivo, teso verso una riflessione profonda sulla qualità e l'autorevolezza delle nostre istituzioni, dalla genitorialità alla scuola.
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(di anna rosa)
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franco django
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giovedì 27 agosto 2020
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da oscar
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Unica difetto del film è quello di essere completamente in romano, per me che sono del nord è stato complicato seguire tutti i dialoghi, poteva essere sottotitolato come Gomorra.
Parliamo di un film gigantesco di cui è un peccato perdere anche una sola sfumatura e dettaglio.
Fotografia, musica, attori, regia, tutto si sposa in un film che non fa dormire... non ci sono i mostri se non i mostri della mente. A mia memoria il film italiano più interessante degli ultimi anni (con Lazzaro felice) che è importante venga portato agli Oscar dall'Italia: il nostro cinema è anche questo, non solo il ripetitivo Garrone di Pinocchio, il banale film di Muccino e le serie tv (cinematografiche) di Sorrentino.
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Unica difetto del film è quello di essere completamente in romano, per me che sono del nord è stato complicato seguire tutti i dialoghi, poteva essere sottotitolato come Gomorra.
Parliamo di un film gigantesco di cui è un peccato perdere anche una sola sfumatura e dettaglio.
Fotografia, musica, attori, regia, tutto si sposa in un film che non fa dormire... non ci sono i mostri se non i mostri della mente. A mia memoria il film italiano più interessante degli ultimi anni (con Lazzaro felice) che è importante venga portato agli Oscar dall'Italia: il nostro cinema è anche questo, non solo il ripetitivo Garrone di Pinocchio, il banale film di Muccino e le serie tv (cinematografiche) di Sorrentino.
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gianfranco
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mercoledì 8 luglio 2020
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un pugno nello stomaco
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Un pugno nello stomaco. Sono pochi i film che non solo suscitano delle domande ma che “spaccano” lo schermo e che provocano l’animo. Si esce diversi da come si entrati.
Film intensamente drammatico, mostra la miseria umana e l’esigenza forte di un bisogno di significato per il vivere.
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Un pugno nello stomaco. Sono pochi i film che non solo suscitano delle domande ma che “spaccano” lo schermo e che provocano l’animo. Si esce diversi da come si entrati.
Film intensamente drammatico, mostra la miseria umana e l’esigenza forte di un bisogno di significato per il vivere. In tutti i personaggi emerge tale esigenza: negli adulti con ferocia e rabbia, negli adolescenti con disperazione e nei bambini che soffrono e attendono dai loro genitori una ragione per vivere (purtroppo senza successo).
Recitazione sublime, pochi dialoghi ma significativi volti a far emergere con forza tutta l’umanità perduta di pasoliniana memoria.
Riprese tutte incentrate sui visi con angolazioni particolari, come a voler indurre lo spettatore ad assumere diversi punti di vista.
Vieni colto da un forte spaesamento di fronte a tanta disperazione; ma per coloro che hanno incontrato un’ipotesi positiva nella vita risorge una rinnovata esigenza di testimonianza.
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