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venerdì 22 novembre 2024
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fumoso e inconsistente come il film
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Film senza una trama, lento e soporifero, il cui senso si inventa attraverso tortuose e cervellotiche trame
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luca scialo
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mercoledì 1 dicembre 2021
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una famiglia dalla verità spiazzante
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Elegante, gentile, delicato, soave. Ed altro ancora. Quello di Kore'eda Hirokazu ha tutti i crismi del cinema nipponico. Si è occupato spesso di bambini emarginati, famiglie problematiche, gli ultimi di un paese che ha abbracciato la filosofia occidentale prima degli altri stati asiatici. Incluse le sue contraddizioni sociali. In una zona periferica, dove non arriva neanche il potere dell'Imperatore, vive una famiglia in clandestinità. Visto che al proprietario risulta che ci viva solo un'anziana donna. Ed invece ce ne sono altri: una coppia, un bambino, una ragazza. Ai quali si aggiunge una bambina che decidono di prendere con sé perché maltrattata dalla famiglia. In un gesto di grande solidarietà in barba alla situazione complicata in cui vivono.
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Elegante, gentile, delicato, soave. Ed altro ancora. Quello di Kore'eda Hirokazu ha tutti i crismi del cinema nipponico. Si è occupato spesso di bambini emarginati, famiglie problematiche, gli ultimi di un paese che ha abbracciato la filosofia occidentale prima degli altri stati asiatici. Incluse le sue contraddizioni sociali. In una zona periferica, dove non arriva neanche il potere dell'Imperatore, vive una famiglia in clandestinità. Visto che al proprietario risulta che ci viva solo un'anziana donna. Ed invece ce ne sono altri: una coppia, un bambino, una ragazza. Ai quali si aggiunge una bambina che decidono di prendere con sé perché maltrattata dalla famiglia. In un gesto di grande solidarietà in barba alla situazione complicata in cui vivono. Un evento però spezzerà quel fragile equilibrio e quella situazione già così precaria. Svelando una verità inaspettata su di loro. Il film scorre lento, ma inesorabile. Rattristisce, talvolta strappa un sorriso, spiazza. Una verità amara che obbliga a riflettere.
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carloalberto
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sabato 21 novembre 2020
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bastian contrario
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Un’altra famiglia del sottoproletariato urbano dell’opulento e iperindustrializzato oriente alla Parasite, ma senza la forza e l’ironia del film coreano, al centro di questo lungometraggio giapponese, che è il caso di definire tale per la lunghezza esasperante e la monotonia delle scene sempre uguali, che si succedono, senza trasmettere nessuna emozione, l’una all’altra, fino alla piccola sorpresa finale, che tale non è essendo ampiamente prevedibile. Il film sa troppo di artificioso e di studiato nella ricerca spasmodica dei buoni sentimenti esaltati laddove la gente comune non si aspetta di trovarli.
Una coppia di ladri, con un passato di prostituzione e lenocinio e una lieve condanna per l’omicidio del marito di lei per legittima difesa, sfruttano un’anziana donna, che è la nonna della ragazza più grande, utilizzando la sua reversibilità per tirare avanti e quando l’anziana muore la seppelliscono sotto casa per continuare a incassare la pensione e la derubano dei suoi risparmi.
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Un’altra famiglia del sottoproletariato urbano dell’opulento e iperindustrializzato oriente alla Parasite, ma senza la forza e l’ironia del film coreano, al centro di questo lungometraggio giapponese, che è il caso di definire tale per la lunghezza esasperante e la monotonia delle scene sempre uguali, che si succedono, senza trasmettere nessuna emozione, l’una all’altra, fino alla piccola sorpresa finale, che tale non è essendo ampiamente prevedibile. Il film sa troppo di artificioso e di studiato nella ricerca spasmodica dei buoni sentimenti esaltati laddove la gente comune non si aspetta di trovarli.
Una coppia di ladri, con un passato di prostituzione e lenocinio e una lieve condanna per l’omicidio del marito di lei per legittima difesa, sfruttano un’anziana donna, che è la nonna della ragazza più grande, utilizzando la sua reversibilità per tirare avanti e quando l’anziana muore la seppelliscono sotto casa per continuare a incassare la pensione e la derubano dei suoi risparmi.
A metà strada tra Oliver Twist in versione moderna e Brutti, sporchi e cattivi in forma però sdolcinata e buonista, il film non coinvolge emotivamente, eppure questo dovrebbe essere il suo unico scopo, visto che manca qualsiasi riferimento critico, neppure sotto forma di metafora, alla società dei consumi che li ha schiacciati emarginandoli nella baracca periferica in cui vivono e dal cui minuscolo giardino si intravede a stento uno spicchio di cielo.
Ma forse il film voleva essere soltanto una riflessione su di un banale luogo comune, ovvero che a volte non è sufficiente procreare per essere una buona madre e che i genitori adottivi possono essere, in taluni casi, migliori di quelli naturali.
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marcloud
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sabato 23 maggio 2020
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famiglia poco tradizionale
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Un piccolo appartamento e una famiglia con dei legami tutti da scoprire. Tra difficoltà economiche e tentativi di sopravvivenza, questa famiglia si ritrova ad accogliere in casa una bambina. Una storia inusuale, raccontata con delicatezza, capace di interrogare sulle categorie di bene e male.
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laurona
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martedì 12 novembre 2019
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capolavoro
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felicity
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mercoledì 6 novembre 2019
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un film sui sentimenti basilari degli esseri umani
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Un bel film che sa raccontare con sincerità e intelligenza i comuni “miserabili” di oggi e la loro indispensabile “arte di arrangiarsi”, ma soprattutto l’immenso bisogno di tenerezza che reagisce all’egoismo e che è tanto più forte quanto più una società isola, rende soli: un bisogno frustrato da presunte regole sociali, che appartiene a ogni persona, bambina, adulta o vecchia che sia.
Proprio quando la trama si tende, i nodi vengono al pettine e il film giunge alla propria risoluzione, risulterà difficile per lo spettatore emettere un giudizio sui personaggi.
Benché abbiamo assistito al compiersi del reato, vedere questa famiglia di poveri, disperati e ladri è una gioia.
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Un bel film che sa raccontare con sincerità e intelligenza i comuni “miserabili” di oggi e la loro indispensabile “arte di arrangiarsi”, ma soprattutto l’immenso bisogno di tenerezza che reagisce all’egoismo e che è tanto più forte quanto più una società isola, rende soli: un bisogno frustrato da presunte regole sociali, che appartiene a ogni persona, bambina, adulta o vecchia che sia.
Proprio quando la trama si tende, i nodi vengono al pettine e il film giunge alla propria risoluzione, risulterà difficile per lo spettatore emettere un giudizio sui personaggi.
Benché abbiamo assistito al compiersi del reato, vedere questa famiglia di poveri, disperati e ladri è una gioia.
Non significa che siano tutti felici, anzi i problemi sono parecchi e anche le insoddisfazioni, ma a prevalere è sempre un tono affettuoso, caldo e sentimentale.
La convinzione del regista è semplice: il sangue conta molto meno, molto molto meno, del farsi carico della crescita concreta, fisica e morale e culturale, di un bambino; il rapporto affettivo conta molto ma molto di più di ogni certificazione legale, istituzionale.
In definitiva, a contare al disopra di ogni legge storica o naturale è la tenerezza che si instaura tra le persone.
Ci vuole davvero un tocco lieve, leggero e la capacità di non enfatizzare nulla, lasciando che sia lo spettatore a cogliere tutto, per commuovere senza nessun evento clamoroso.
Alla fine gli occhi diventano lucidi per l’emergere così evidente, indiscutibile e tangibile dei sentimenti basilari degli esseri umani, così limpidi e desiderabili, che non pare nemmeno merito del film. E invece lo è.
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eugenio
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venerdì 22 febbraio 2019
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memorie (di una famiglia) dal sottosuolo
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Un piccolo capolavoro l’ultimo film del regista Koreeda Hirokazu, palma d’Oro al Festival di Cannes del 2018 e ora in dvd., Un film fatto di silenzi, delicato, intenso, che ha come cuore il fulcro familiare, un dramma alla Yausjiro Ozu che abbraccia anche echi del cinema di Kurosawa.. E con Un affare di famiglia (titolo originale Shoplifter), quell'abbraccio è feroce, bello e amorevole come quello di una madre che cerca di eliminare tutte le paure di suo figlio.
C’è una summa del pensiero di Koreeda Hirokazu in questo film: tristezza, degrado, felicità, passione e apparenza.
Perché in Un affare di famiglia niente è ciò che sembra e l’analisi a misura d’uomo lucida e spietata di una famiglia giapponese “improvvisata” all’ultimo gradino della scala sociale non sembra proprio un modello da seguire con la sua alternanza di lavori molto umili e piccoli furti o prostituzione.
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Un piccolo capolavoro l’ultimo film del regista Koreeda Hirokazu, palma d’Oro al Festival di Cannes del 2018 e ora in dvd., Un film fatto di silenzi, delicato, intenso, che ha come cuore il fulcro familiare, un dramma alla Yausjiro Ozu che abbraccia anche echi del cinema di Kurosawa.. E con Un affare di famiglia (titolo originale Shoplifter), quell'abbraccio è feroce, bello e amorevole come quello di una madre che cerca di eliminare tutte le paure di suo figlio.
C’è una summa del pensiero di Koreeda Hirokazu in questo film: tristezza, degrado, felicità, passione e apparenza.
Perché in Un affare di famiglia niente è ciò che sembra e l’analisi a misura d’uomo lucida e spietata di una famiglia giapponese “improvvisata” all’ultimo gradino della scala sociale non sembra proprio un modello da seguire con la sua alternanza di lavori molto umili e piccoli furti o prostituzione. Qualcosa di cui in parte potremmo rimaner indignati, un rivolo di rabbia che si gonfia, si ramifica e poi esplode a delta nei momenti finali in una foce di un fiume nervoso ed empatico, in un umanesimo che abbraccia il cinema moderno dispiegando compassione.
Comincia con una vena delicatamente comica, leggera come una colonna sonora, il padre Osamu (l'insostituibile Franky Lily) e il tipo di figlio Shota (Kairi Jyo) si muovono con grazia in un supermercato con il figlioletto che viste le modeste necessità della famiglia, infila qualcosa nel suo zaino. Vivono in un appartamento angusto che appartiene alla loro nonna non vera (il bravo Kilin Kiki) e che condividono con la moglie di Osamu Nobuyo (Sakura Ando, ottima la sua perfomance solitaria nella scena finale luminosa e straordinaria) e la prostituta Aki (Mayu Matsuoka). Nessuna di queste persone ha un vero e proprio legame di sangue, ma si definiscono collettivamente Shibata. Sono quindi una famiglia che sta per diventare più numerosa. Sulla strada di casa in una notte gelida, Osamu e Shota notano, infatti, una bambina, Juri (Sasaki Miyu), abbandonata e la portano con loro. All'inizio Nobuyo non vuole avere niente a che fare con lei, ma a tempo debito si affezionerà alla ragazza con una tenerezza penetrante, verso la quale crescerà progressivamente un legame affettivo, forse superiore a quella della madre “putativa”.
La bellezza di Un affare di famiglia non è la storia, o almeno, non è questo l’intento del regista. Sono i dettagli, piccoli, minimi a rendere la pellicola nelle sue due ore, intensa e unica. Il ballo sensuale di Aki dinanzi a un “cliente” incapace di parlare, l’abbraccio di due reietti che trovano nel sesso lo sfogo e il denaro, l’atmosfera da “mangiatori di patate” di un quadro di Van Gogh, è una bellezza così suggestiva da sembrare effimera eppure così acuta da apparir dolore. E l’abilità del cineasta è riuscire a trasmettere le emozioni, senza mai rallentar il colpo, senza un momento di noia. Persino all’inizio nel fischiettar incurante del piccolo Shota a sostituir merce dagli scaffali, invertendo prezzi e cifre, si aggira già qualcosa nel corridoio della nostra anima: emozione.
Un’emozione che Koreeda riesce a comporre al culmine, nello sviluppo lento ma necessario di una famiglia. La precarietà, l'unione incerta, introduce elementi sorprendenti e oscuri che ci costringono a rivalutare le motivazioni di Shibata, interrogandoci sull'idea, centrale nel corpo di lavoro di Koreeda di “famiglia”, coacervo consanguineo o acquisito? in una conclusione dai vaghi rimandi all’Arminuta della Pietrantonio (per citare un esempio “italiano” letterario) amara e ineluttabile, mettendo in campo società, felicità e libero arbitrio. In questo lamento sommesso e ameno di questi Shoplifters ovvero “taccheggiatori del sottosuolo”, in questo mondo che anche se preferiamo non vedere, appartiene a tutti noi.
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gbavila
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lunedì 4 febbraio 2019
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la felicità sta fuori dalle reglole
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Gli affetti famigliari vivono meglio se fuori dalle regole, le convezioni sono gabbie strette. Sembra che tutto sia fatto per non funzonare,la chiesa, la politca, la scienza, la famiglia. La nostra diversità, meglio dire unicità, mal si adatta alle regoe che richiedono come minimo di essere trasgredite, anche se le conseguenze sono drammaticamente ineviabili. Condanniamo Socrate, Galilei, don Milani e così, via via, dal condominio alla politica, sembra un dialogo fra sordi. Il risultato è l'isolamento, l'esilio. In questa famiglia giapponese immersa nei probemi fino al collo avvengono tanti miracoli di convivenza felice ma si scopre che non esiste alcun vincolo famigliare legale fra loro e che quelli originali dei personaggi erano solo gabbie spietate che alla fine del racconto tornano a soffocarli in una spietata rivincita.
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Gli affetti famigliari vivono meglio se fuori dalle regole, le convezioni sono gabbie strette. Sembra che tutto sia fatto per non funzonare,la chiesa, la politca, la scienza, la famiglia. La nostra diversità, meglio dire unicità, mal si adatta alle regoe che richiedono come minimo di essere trasgredite, anche se le conseguenze sono drammaticamente ineviabili. Condanniamo Socrate, Galilei, don Milani e così, via via, dal condominio alla politica, sembra un dialogo fra sordi. Il risultato è l'isolamento, l'esilio. In questa famiglia giapponese immersa nei probemi fino al collo avvengono tanti miracoli di convivenza felice ma si scopre che non esiste alcun vincolo famigliare legale fra loro e che quelli originali dei personaggi erano solo gabbie spietate che alla fine del racconto tornano a soffocarli in una spietata rivincita.
Giuliano Bavila
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yarince
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giovedì 6 dicembre 2018
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un microcosmo autarchico fuori dal welfare sociale
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Vorrei partire dal titolo italiano, “un affare di famiglia”, tradimento dell'originale Shoplifters, (taccheggiatori), che racchiude già in sè il dubbio amletico che si insinua durante e dopo il film: siamo di fronte ad un esempio di modello di famiglia alternativa o ad un’associazione a delinquere?
Un gruppetto di indigenti economici e affettivi che non hanno legami di sangue tra loro, vivono insieme in un piccolo interno giapponese pieno di caos e calore; una coppia (genitori) sopravvive con lavori a cottimo, un’ anziana ( nonna), che non vuole morire da sola e mette a disposizione la sua pensione, un’adolescente, autolesionista in fuga dalla famiglia di origine, che lavora in un peep show e due bambini che vengono iniziati al taccheggio dal padre putativo.
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Vorrei partire dal titolo italiano, “un affare di famiglia”, tradimento dell'originale Shoplifters, (taccheggiatori), che racchiude già in sè il dubbio amletico che si insinua durante e dopo il film: siamo di fronte ad un esempio di modello di famiglia alternativa o ad un’associazione a delinquere?
Un gruppetto di indigenti economici e affettivi che non hanno legami di sangue tra loro, vivono insieme in un piccolo interno giapponese pieno di caos e calore; una coppia (genitori) sopravvive con lavori a cottimo, un’ anziana ( nonna), che non vuole morire da sola e mette a disposizione la sua pensione, un’adolescente, autolesionista in fuga dalla famiglia di origine, che lavora in un peep show e due bambini che vengono iniziati al taccheggio dal padre putativo. L’ingranaggio familiare funziona: il ritratto è un nido d’amore, un microcosmo autarchico escluso dal welfare sociale. I due bambini, un maschietto trovato abbandonato in un auto in un parcheggio e una femminuccia, denutrita, impaurita e piena di cicatrici e bruciature sulla pelle, vengono “salvati” dalle loro famiglie d’origine, crescono come due fratellini, vengono amati e accuditi dai grandi e dalla nonna. Viene quindi garantito loro, il nutrimento affettivo sano, ma non l’integrazione sociale e l’istruzione.
Il titolo originale “Shoplifters” fa riferimento alla specializzazione del furto, chi è cresciuto con Robin Hood e Lupin lo sa, i ladri non sono tutti uguali…Il taccheggiatore non scippa, non minaccia, non usa violenza, non nuoce a nessuno, rubare nelle vetrine dei negozi, è in fondo, un “furto minore”. Il film si evolve in una condanna per rapimento di minori, di occultamento di cadavere, la bambina ritornerà nel contesto anaffettivo e violento della famiglia d’origine e il bambino affidato a una casa famiglia. La società civile ha il diritto di applicare le sue leggi dopo aver lasciato che persone in difficoltà se la cavino da soli? Il quesito è maieutico.
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sergiodalmaso
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martedì 27 novembre 2018
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l'unica famiglia è quella felice
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“L’unica famiglia è quella naturale: padre, madre e figli. Altre non ne esistono” (un politico)
“L’unica famiglia è quella felice” (un bambino)
Cos’è una famiglia? Bastano i legami di sangue per definirla? O contano di più quelli affettivi?
Decisamente strana è quella formata da Osamu, un goffo e maldestro operaio precario, ladruncolo per necessità, e la compagna Nobuko, stiratrice a chiamata. Vivono nell’umile appartamento dell’anziana nonna Hatsue assieme alla nipote Aki, studentessa che arrotonda in un locale a luci rosse, e Shota, un ragazzino in difficoltà “adottato” dalla famiglia allargata e anch’esso iniziato al furto.
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“L’unica famiglia è quella naturale: padre, madre e figli. Altre non ne esistono” (un politico)
“L’unica famiglia è quella felice” (un bambino)
Cos’è una famiglia? Bastano i legami di sangue per definirla? O contano di più quelli affettivi?
Decisamente strana è quella formata da Osamu, un goffo e maldestro operaio precario, ladruncolo per necessità, e la compagna Nobuko, stiratrice a chiamata. Vivono nell’umile appartamento dell’anziana nonna Hatsue assieme alla nipote Aki, studentessa che arrotonda in un locale a luci rosse, e Shota, un ragazzino in difficoltà “adottato” dalla famiglia allargata e anch’esso iniziato al furto.
Vivono nell’anonimato, socialmente isolati come la fatiscente casetta immersa nel lussuoso quartiere residenziale. Un microcosmo famigliare fragile e instabile, che per proteggersi ha reciso tutti i legami sociali affidandosi solo a quelli affettivi. Malgrado l’indigenza e la povertà materiale, malgrado si siano “scelti” inizialmente solo per necessità, c’è tra i componenti della famiglia Shibata un affetto profondo, un’umanità e un calore domestico del tutto sinceri. Per Osamu e Nobuko sarà assolutamente naturale aiutare la piccola Juri lasciata dai genitori per punizione al gelo nel terrazzo,e poi accoglierla nella famiglia dopo aver visto i lividi che ha sulle braccia. Non si fanno domande, seguono quello che gli dice il cuore, anche se sanno che socialmente è sbagliato, che giuridicamente potrebbero essere accusati di rapimento di un minore.
Con questo ennesimo capolavoro il maestro giapponese Kore-Eda continua la sua ricerca sulle tematiche che caratterizzano il suo cinema come i legami famigliari e il senso della genitorialità. Un affare di famiglia sembra chiudere la tetralogia iniziata con Father and Son e proseguita con Little Sister e Ritratto di famiglia con tempesta. Come sempre è un cinema poetico, misurato, che non ha bisogno di pathos sensazionalistico né di enfatizzare gli aspetti drammatici. Bastano i dettagli, gli sguardi, i sorrisi malinconici. Non serve ostentare i maltrattamenti subiti da Yuri, basta mostrare con pudore i segni delle bruciature sulle braccia.
I dialoghi sono sobri ed essenziali, perché per Kore-Eda conta più il linguaggio del corpo, la gestualità del non detto, la verità che emerge dai dettagli.
Splendidi per la grazia e la delicatezza sono gli episodi di vita famigliare, come la serata con i fuochi d’artificio o la giornata passata al mare in cui la nonna commossa, in una delle scene più belle, riesce solo a sussurrare “grazie”. La notevole bravura del registra giapponese si rivela anche nel dirigere i bambini e gli adolescenti con una naturalezza e una espressività mai fuori misura, sempre credibili. Molto efficaci le sequenze girate dentro le caotiche e anguste stanze della casetta, riprese dal basso e con una fotografia calda e luminosa, opposta a quella fredda e grigia degli esterni.
Nell’ultima parte, dopo che l’incantesimo si sarà spezzato e l’isolamento sociale degli Shibata avrà termine, il film cambia rapidamente registro. L’entrata in scena delle figure istituzionali preposte - assistenti sociali, magistrati, psicologi – disvela, con freddi e asettici interrogatori, le bugie e l’oscuro passato dei vari componenti della famiglia. I legami sociali ufficiali potranno così essere ripristinati.
Un affare di famiglianon ha alcun intento pedagogico, tantomeno moralista, non c’è nessun buonismo ad effetto. Kore-Eda si limita a sollevare delle domande, senza forzare delle risposte che, su temi così sensibili, ognuno deve cercare da solo. Magari ce le fa suggerire dallo sguardo triste di Yuri che sale sullo sgabello e guarda dal balcone per vedere se sono tornati quei personaggi strani che gli avevano dato affetto e serenità.
O Shota che sull’autobus riesce alla fine a sussurrare a se stesso quella parola che non aveva avuto la forza di dire a Osamu. La loro vita cambierà, ma resteranno vivi i ricordi dei momenti felici, dell’affetto dato e ricevuto. Già, perché come dice Kore-Eda “è il sangue o il tempo che passi assieme che forma una famiglia?”
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