michele
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mercoledì 14 febbraio 2024
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la familiarità del male
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Nonostante il tema dell'Olocausto sia stato ampiamente affrontato, filmato e dibattuto dal cinema con opere monumentali entrate nella cultura collettiva di tutti, Glazer riesce a trovare un nuovo punto di vista dal quale raccontare questo evento storico. Auschwitz è lo sfondo della scenografia, è presente, sempre, ma non ci entriamo mai. Siamo di fronte a un film di sottrazione visiva e immersione sonora nei rumori onomatopeici del campo di sterminio, anche quelli esterni, ma decisamente invadenti. Intorno al campo c'è una vita bucolica, perfettamente tedesca e così "meravigliosamente" ariana.
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Nonostante il tema dell'Olocausto sia stato ampiamente affrontato, filmato e dibattuto dal cinema con opere monumentali entrate nella cultura collettiva di tutti, Glazer riesce a trovare un nuovo punto di vista dal quale raccontare questo evento storico. Auschwitz è lo sfondo della scenografia, è presente, sempre, ma non ci entriamo mai. Siamo di fronte a un film di sottrazione visiva e immersione sonora nei rumori onomatopeici del campo di sterminio, anche quelli esterni, ma decisamente invadenti. Intorno al campo c'è una vita bucolica, perfettamente tedesca e così "meravigliosamente" ariana. Auschwitz è una fabbrica come tante altre, il suo ritmo "produttivo" lo percepiamo, lo ascoltiamo distanti, ma non troppo, mentre tutto scorre in perfetta armonia. La fredda e rigorosa messa in scena ci lascia impietriti, attoniti di fronte ad una famiglia che vive a fianco ad uno dei più grandi orrori del Novecento senza percepire un sentimento, un brivido.
La mano registica di Glazer è minimale, ma efficace nella rappresentazione, coglie i dettagli sullo sfondo riuscendoli a portare emotivamente in primo piano. Pur muovendosi in uno spazio stretto e con poco respiro è in grado di regalarci addirittura uno dei piani sequenza più glaciali della storia del cinema. Le ceneri, il treno che porta i deportati, i latrati dei cani che abbaiano, gli spari: ritroviamo tutti i punti cardinali e gli elementi caratteristici di questo universo, ma mai mostrati "davanti". Eppure, pur essendo sempre dietro le quinte, l'orrore ci penetra dentro l'anima.
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[+] l''orrore suggerito che penetra l''anima umana
(di antonio montefalcone)
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eraldo
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lunedì 18 marzo 2024
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i suoni del male
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E' difficile e forse non ha nemmeno senso dare un voto ad un film come questo: ma non perché non lo meriti, ma piuttosto perché si pone talmente al di là, che persino un giudizio diventa inadeguato. E' certamente ben rappresentato il contrasto lacerante tra il Campo di sterminio di Auschwitz e la casa al di qua del muro dove vive il direttore con la sua giovane famiglia, la bellezza e l'ampiezza del giardino con serra e piscina, i cavalli e il cane onnipresente, la tanta servitù, persino i fiori in un primo piano sembrano trasfigurare la loro bellezza nel vuoto del senso di esistere. Siamo oltre" la banalità del male", ma nella sua perniciosa routine in cui ha senso soltanto il benessere della propria condizione familiare e il fare carriera, anche se attraverso lo sterminio di un popolo, considerato come un'eccedenza di numeri da cancellare.
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E' difficile e forse non ha nemmeno senso dare un voto ad un film come questo: ma non perché non lo meriti, ma piuttosto perché si pone talmente al di là, che persino un giudizio diventa inadeguato. E' certamente ben rappresentato il contrasto lacerante tra il Campo di sterminio di Auschwitz e la casa al di qua del muro dove vive il direttore con la sua giovane famiglia, la bellezza e l'ampiezza del giardino con serra e piscina, i cavalli e il cane onnipresente, la tanta servitù, persino i fiori in un primo piano sembrano trasfigurare la loro bellezza nel vuoto del senso di esistere. Siamo oltre" la banalità del male", ma nella sua perniciosa routine in cui ha senso soltanto il benessere della propria condizione familiare e il fare carriera, anche se attraverso lo sterminio di un popolo, considerato come un'eccedenza di numeri da cancellare. L'eco del dolore appena al di là del muro giunge a tratti e come un sottofondo di spari, di ordini secchi, di grida, di pianti, dell'abbaiare di cani inferociti; ma resta appunto lontano dall'idilliaco occuparsi di noi, come lo scuro fumo che esce dai camini dei forni.Si entra gradatamente nella regia del Male che pervade tutto anche un festa occasionale, come unico filtro da cui vedere la realtà. I suoni giocano un ruolo di primaria importanza, uno in particolare, come un gutturale violento e distorto pare rappresentare la voce di questo Male infernale, una voce senza parole, un simbolismo estremo della sua intraducibile volontà violenta e crudele, in cui le parole non possono entrare a portare la minima apertura di luce di uno spiraglio di senso.
Si tratta di un pugno nello stomaco, tirato a freddo, a tradimento;: è giusto e doloroso vederlo, almeno quanto attuale: e forse anche per questo lo sgomento è grande, perché il mondo non sembra mai prendere consapevolezza dalle terribili lezioni della sua stessa storia
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gabriella
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sabato 23 marzo 2024
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senza parole
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L'immagine di apertura è uno schiaffo drirtto in faccia, uno sfondo nero dal quale provengono suoni distorti, laceranti, stridenti, i nostri occhi non vedono ,.ma le orecchie sentono quei suoni deformati, li ascoltano , non ci abbandonano più, nemmeno quando entriamo nella bella casa della famiglia Hoss, nel loro giardino curato con tanto di piscina, la servitù che corre avanti e indietro e i cani che scodinzolano.
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L'immagine di apertura è uno schiaffo drirtto in faccia, uno sfondo nero dal quale provengono suoni distorti, laceranti, stridenti, i nostri occhi non vedono ,.ma le orecchie sentono quei suoni deformati, li ascoltano , non ci abbandonano più, nemmeno quando entriamo nella bella casa della famiglia Hoss, nel loro giardino curato con tanto di piscina, la servitù che corre avanti e indietro e i cani che scodinzolano. Il muro che divide la villetta separa un campo di concentramento ad Auschwitz, dove si consumano gli orrori che conosciamo, dove si sentono grida, i latrati dei cani, si vede il fumo delle ciminiere, ma tutto viene celato allo sguardo, niente scene dilanianti, niente atrocità, nessuna immagine esplicita, il linguaggio cinematografico di Jonathan Glazer parla per evocazione, privando lo spettatore del mostrato , negandogli la commozione facile, ma costringendolo ad ascoltare, inseguendolo con una colonna sonora dissonante , una voce senza scampo, l’unica alla quale è permesso di oltrepassare la recinzione. Il bravissimo regista britannico sa bene che il male si adatta , non possiamo non paragonare il nostro atteggiamento di fronte agli attuali conflitti mondiali, la guerra in Ucraina, il genocidio palestinese e tante altre guerre dimenticate perché appunto ci adattiamo agli orrori, all’ indifferenza, la fretta di tornare al nostro quotidiano , a salvaguardare la nostra zona d’ interesse, e non è poi così diversa dal comandante nazista, marito e padre affettuoso che svolge il suo lavoro in maniera sterile, distaccata, senza coinvolgimenti, che interiorizza e inghiotte qualsiasi suono, non lo sente più. E’ proprio questo che invece che il film vuole dimostrare, aprirci gli occhi attraverso l’ascolto, fino a stordirci.
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carlo santoni
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giovedì 29 febbraio 2024
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lo specchio nero dell’eterno presente
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Se non è un capolavoro assoluto, ci va assai vicino, soprattutto per il nitore concettuale che lo permea, e che lo rende estremamente coerente, a cominciare dall’uso della mdp: quasi sempre in posizione fissa e diretta ortogonalmente all’oggetto che riprende; e quando la mdp è in movimento, magari per seguire un personaggio che sta camminando, scorre su binari che eliminano qualsiasi minimo scossone da handycam: e sempre, comunque, riprendono ortogonalmente il soggetto. Questo assillo dell’ottima fotografia è per me un po’ la cifra del film, e non funziona alla maniera di altri autori, come Rohmer: in questo caso, la sua fissità è la metafora della fissità esistenziale dei personaggi del film, la sua ortogonalità è metafora della ortogonale pianificazione dello sterminio: tutto dev’essere calcolato, tutto dev’essere perfetto, appunto come gli angoli a squadra, o come il giardino della villa perfettamente rettangolare, o come le pavimentazioni dei corridoi a disegni geometrici rigorosamente identici e squadrati.
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Se non è un capolavoro assoluto, ci va assai vicino, soprattutto per il nitore concettuale che lo permea, e che lo rende estremamente coerente, a cominciare dall’uso della mdp: quasi sempre in posizione fissa e diretta ortogonalmente all’oggetto che riprende; e quando la mdp è in movimento, magari per seguire un personaggio che sta camminando, scorre su binari che eliminano qualsiasi minimo scossone da handycam: e sempre, comunque, riprendono ortogonalmente il soggetto. Questo assillo dell’ottima fotografia è per me un po’ la cifra del film, e non funziona alla maniera di altri autori, come Rohmer: in questo caso, la sua fissità è la metafora della fissità esistenziale dei personaggi del film, la sua ortogonalità è metafora della ortogonale pianificazione dello sterminio: tutto dev’essere calcolato, tutto dev’essere perfetto, appunto come gli angoli a squadra, o come il giardino della villa perfettamente rettangolare, o come le pavimentazioni dei corridoi a disegni geometrici rigorosamente identici e squadrati. Anche il cromatismo adottato va nella stessa direzione: così sfumato, tenue, adatto a descrivere la vita di una comune, agiata famiglia borghese: che di questo il film tratta, della famiglia di Rudolf Höß. Ah, beh, certo, dietro il muro di cinta del giardino della villa c’è il campo di sterminio di Auschwitz, che Rudi stesso ha messo su, e del quale è direttore; se ne scorgono i tetti degli alloggi, le alte ciminiere sempre in funzione, il fumo che esce, rossastro di notte, tutte le notti, ogni tanto grida, qualche sparo: ma il campo di sterminio nella storia raccontata non entra mai direttamente, se ne sta al di là del muro e nessuno lo vede. O meglio: vederlo lo vede, ma è come se non ci fosse.
Nessuno vede l’orrore, poiché nessuno lo vuol vedere: ecco perché intendo questo film come “lo specchio nero dell’eterno presente”, e non del passato: troppo comodo. Invece il film, mostrandoci la mostruosità di quella società nazista, genocida, completamente indifferente alle atrocità immani che stava commettendo, delle quali si può dire si stesse cibando, esso ci mostra la nostra esatta indifferenza di fronte ad altri sterminii, ad altri genocidi, che accadono esattamente sotto i nostri occhi, mentre noi ci occupiamo allegramente del Festival di Sanremo o del campionato di calcio. O non è forse quello perpetrato attualmente a Gaza dai sionisti un vero e proprio efferato sterminio di massa, al quale restiamo sostanzialmente indifferenti? Il film si chiude con due scene sovrapposte: da una parte Höß che scende una scalinata interna, sotto una luce livida, finché dopo aver vomitato, scompare nell’oscurità del suo stesso inferno; dall’altra, alcune addette che, al giorno d’oggi, ci mostrano senza tanti svolazzi e senza alcuna retorica cos’è Auschwitz oggi. E quelle scarpe, quelle centinaia di migliaia di scarpe ammassate dietro i vetri e che silenziose ci raccontano il numero incommensurabile dello sterminio perpetrato nell’indifferenza, o peggio, di un’intera società.
Estremamente funzionali i titoli di testa e di coda, quel nero che è come il nero interiore che ci rende ciechi. Estremamente perturbante, ed anche molto poetico, l’uso dell’infrarosso, adatto a raccontare una storia altra, di una ragazzina che lascia segni dietro di sé, e che io interpreto come la protagonista femminile della fiaba di Hans e Gretel. Un film assolutamente da non perdere!
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[+] un esempio discutibile
(di alberto staderini)
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eugenio
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venerdì 26 aprile 2024
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l''orrore nero
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L’orrore, delle volte, ha il volto dell’assoluta tranquillità. O meglio, l’orrore è asettico, gelido. Non ti concede nulla, solo spazio per il dolore. La zona di interesse è un film dell’orrore. Un orrore che permea i cento e passa minuti della pellicola con un inizio e fine a cerchio raggelati in una musica catatonica che ricorda grida umane. Di corpi bruciati senza remore nel camino, di cenere che bagna il fiume, di un muro oltre il quale quell’orrore si definisce nel volto di Rudold Hoss, il più famigerato primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Lui ne è ricoperto, tanto da esserne assuefatto. Nell’ordinata casa con giardino meticolosamente coltivato dalla sua “regina” (una Huller in stato di grazia) e piscina per i bambini, trascorre la sua quotidiana esistenza intervallata da qualche “carico” di ebrei e di prigionieri che di tanto in tanto appaiono portando alimenti per la dispensa, ma anche sacchi di abiti, che poi le donne selezionano e si spartiscono.
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L’orrore, delle volte, ha il volto dell’assoluta tranquillità. O meglio, l’orrore è asettico, gelido. Non ti concede nulla, solo spazio per il dolore. La zona di interesse è un film dell’orrore. Un orrore che permea i cento e passa minuti della pellicola con un inizio e fine a cerchio raggelati in una musica catatonica che ricorda grida umane. Di corpi bruciati senza remore nel camino, di cenere che bagna il fiume, di un muro oltre il quale quell’orrore si definisce nel volto di Rudold Hoss, il più famigerato primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Lui ne è ricoperto, tanto da esserne assuefatto. Nell’ordinata casa con giardino meticolosamente coltivato dalla sua “regina” (una Huller in stato di grazia) e piscina per i bambini, trascorre la sua quotidiana esistenza intervallata da qualche “carico” di ebrei e di prigionieri che di tanto in tanto appaiono portando alimenti per la dispensa, ma anche sacchi di abiti, che poi le donne selezionano e si spartiscono.
In questa quotidianità sta l’orrore. Jonathan Glazer abilmente lo scruta, disossando l’omonimo testo di Amis, sottolineando la totale indifferenza di ciò che rimane in sottofondo, il dolore e le grida, appunto. Nella sua pellicola minimalista, parlano le immagini, i controcampi, i fiori, il fumo nero e acre. Parlano i pochi dialoghi raggelanti, il rigetto senza liquidi, il corpo che si rifiuta di vivere. Parlano i suoni litanie di morte, parla la logica perversa, allucinata e delirante nazista priva di qualunque empatia. Ma parla anche, di notte, la speranza di una figura che si muove con la bicicletta tra terra e campi a sotterrare delle mele per far rivivere quei corpi umani attecchiti dalla morte e dar loro una minima speranza di rinascita. In una notte nera rischiarata da una termocamera, il giorno cieco e inspiegabile si fa più crudo, senza volto, nell’abisso oscuro di una storia dolorosamente vera e infernale.
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fif
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giovedì 29 febbraio 2024
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l''oggettività del quotidiano
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Se avete ancora speranza nell’uomo, se vi appigliate quotidianamente con fatica ad ogni cencio di comunità per sentirvi meno soli in un percorso vitale di difficile lettura, non guardate la zona di interesse, non leggetene neanche le recensioni, attraversate prima di incontrarne i manifesti nei cinema che ce l’hanno in programmazione, perché se lo vedrete, poi, non potrete mai più far finta di non sapere, come fino all’attimo prima di quel maledetto avvio. Che poi non vederlo sarebbe forse la sua più ampia celebrazione, perfettamente in linea con l’indifferenza che il film trasuda, in ogni sua lentissima scena. È un horror in cui non è consentito urlare, non c’è nessuna scusa di sfogo, un climax monco che rincorre un apice che non arriva mai, in cui l’angoscia di chi guarda monta per restare.
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Se avete ancora speranza nell’uomo, se vi appigliate quotidianamente con fatica ad ogni cencio di comunità per sentirvi meno soli in un percorso vitale di difficile lettura, non guardate la zona di interesse, non leggetene neanche le recensioni, attraversate prima di incontrarne i manifesti nei cinema che ce l’hanno in programmazione, perché se lo vedrete, poi, non potrete mai più far finta di non sapere, come fino all’attimo prima di quel maledetto avvio. Che poi non vederlo sarebbe forse la sua più ampia celebrazione, perfettamente in linea con l’indifferenza che il film trasuda, in ogni sua lentissima scena. È un horror in cui non è consentito urlare, non c’è nessuna scusa di sfogo, un climax monco che rincorre un apice che non arriva mai, in cui l’angoscia di chi guarda monta per restare. L’indifferenza è la chiave, pilastro di vite banali, già, la banalità del male, ma ancora più a portata di mano, lineare e piatta, la vita di una famigliola qualunque, il compleanno del padre lavoratore, i pettegolezzi tra le vicine prendendo un thè, giornate uguali di una moglie fiera del proprio giardino, bambini che giocano a rincorrersi. Solo che non è così, solo che fuori è l’inferno e quel fuori è già lì dentro. Se solo questo film insieme alla banalità ci consegnasse anche la retorica del male, allora di nuovo saremmo salvi, avremmo il solito contentino morale in cui crogiolarci, condonandoci l’anima in qualche consolazione autoimposta. Invece no. Qui la ricerca è diversa, emerge una domanda nuova: come e perché si può arrivare a non vedere più, a non saper più leggere l’umanità delle vite? Razionalizzare a tal punto che la cenere di corpi umani non è più feticcio su cui aggrappare le preghiere per un caro, ma mero fertilizzante per le piante. È disarmante. E lo è perché scava talmente tanto da arrivare alle basi di cosa sia giusto e sbagliato, quando non c’è più alcuna argomentazione per poter spiegare l’aggettivo se non sé stesso: è sbagliato perché è sbagliato, punto. Ma non basta. L’oggettività con cui la realtà si mostra, cruda e vera, è estenuante. Traspare che allora sul piano dell’oggettività non c’è spazio per l’uomo e che quindi l’uomo, inteso come umano, non è reale, è finzione di un mondo soggettivo che in quanto tale non esiste. L’uomo non è neanche bestia, è un non è, è astrazione, è negativo, in senso di contrario. Prova ne è che le uniche scene che riportano ad un umano sentimento sono in bianco e nero, a colori invertiti, lì si intravede il gioco spontaneo, ma una favola raccontata di sottofondo a quelle scene assume un tono aberrante quando il forno di Hansel e Gretel si confonde con quelli di Auschwitz, sottolineando come le premesse delle nostre infanzie siano state tutte sbagliate. C’è solo un momento, nel finale, in cui lo spettatore ha un sussulto, spera di uscire dall’apatia in cui è intorpidito, ed è quando il protagonista sembra stare male, vomita. In quella frazione di secondo si prova pietà, ma allo stesso tempo ci si augura che un equilibrio divino gli imputi qualche malattia, sarebbe giustizia, e sarebbe allora salvezza per tutti, nella semplificazione che ci sarebbe più comoda: lui condannato, noi innocenti. Ma è lì la rivoluzione di un punto di vista innovativo e geniale, la scena cambia e ci ritroviamo senza capirlo ad oggi, quando tutto quel male non è diventato che un museo in cui delle addette alla pulizia sistemano reperti, le scarpe di bambini potrebbero essere qualunque cosa, qualunque oggetto di qualunque persona, non è più importante di chi e perché, di nuovo quella linearità asettica e cinica che però è vita di qualcuno, ancora una volta l’abominio diventa normalità, si astrae il contesto e rimane la quotidianità. Non ci si salva con un’ipocrita rivincita dell’antagonista che muore sofferente, non ci è data questa scorciatoia e, infatti, un attimo dopo, la scena torna sul comandante Rudolf Hoss di nuovo in piedi. Lui è salvo, lo spettatore no. La trama non è risolta, il cattivo non è finito, l’indifferenza resta affidata agli incoscienti avventori, liberi di tornare ognuno alla propria quotidianità, tra le personali mura di cinta ben chiuse, indifferenti a ciò che c’è dietro, confondendo le spine del filo di confine con quelle delle rose sgargianti, ognuno sereno nella propria zona di interesse.
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[+] sì. però......
(di chansgiardinier)
[ - ] sì. però......
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moviepillows_
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martedì 26 marzo 2024
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la zona d''interesse: il male che si sente
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Adattamento del romanzo di Martin Amis del 2014, vincitore dell'Oscar come Miglior Film Internazionale, la Zona d'Interesse di J. Glazer è il primo film che racconta l'Olocausto da un punto di vista diverso: quello dei nazisti Rudolf e Hedda Hoss.
I due coniugi e i rispettivi figli si sono trasferiti in Polonia in una villa con un giardino pieno di piante in fiore. Nel fine settimana organizzano Pic nic e feste.
Il quadretto familiare sembra così perfetto che subito non si notano le grida di terrore, gli spari continui. Ma quando inizia a vedersi il fumo delle ciminiere alzarsi al di là del giardino, la cenere che imbratta i vestiti, è facile capire dove ci si trova.
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Adattamento del romanzo di Martin Amis del 2014, vincitore dell'Oscar come Miglior Film Internazionale, la Zona d'Interesse di J. Glazer è il primo film che racconta l'Olocausto da un punto di vista diverso: quello dei nazisti Rudolf e Hedda Hoss.
I due coniugi e i rispettivi figli si sono trasferiti in Polonia in una villa con un giardino pieno di piante in fiore. Nel fine settimana organizzano Pic nic e feste.
Il quadretto familiare sembra così perfetto che subito non si notano le grida di terrore, gli spari continui. Ma quando inizia a vedersi il fumo delle ciminiere alzarsi al di là del giardino, la cenere che imbratta i vestiti, è facile capire dove ci si trova. Rudolf Hoss, SS tra le più spietate, era il comandante del campo di concentramento di Auschwitz.
Nel film tuttavia non si vede - come invece accadeva in Schindler List- l'inferno dei campi, ma si sente, continuamente, di giorno e di notte. Le grida, gli spari, i cani che abbiano, le persone che implorano, i treni che vanno e vengono, fanno da colonna sonora al film. La morte, la disperazione, la malvagità, sono esattamente lì, al di là del muro di quella casa simbolo della banalità del male.
Glazer è riuscito ad utilizzare suoni e inquadrature (in particolare quelle all'interno e all'esterno della casa) in modo magistrale, quasi da visionario. In alcuni momenti, sembra di essere in una sorta di Truman Show. Piazza poi qualche scena nauseante come quella in cui Hoss si accorge che il fiume è inquinato dalle ceneri o quella in cui i ragazzi giocano con i denti d'oro ritrovati.
Il suo intento è pienamente riuscito: avvertirci che il male è frutto delle decisioni di uomini comuni, è un dramma costante, che oltre a farci riflettere sul passato, fa pensare al presente, al futuro. Il suo film non è solo una rievocazione dell'Olocausto ma un' opera che costringe a riflettere sulla crudeltà dell'uomo, sulla sua malvagità, sul suo fallimento.
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nino raffa
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mercoledì 15 maggio 2024
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una famiglia felice
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“Tutte le famiglie felici sono uguali”, così il famoso incipit di Anna Karenina. Non sappiamo se Tolstoj confermerebbe dopo aver visto La zona d’interesse.
Auschwitz, 1943. Rudolf Hoss, inventore e comandante del campo di sterminio, abita con la moglie Hedwig e i cinque figli, un villino appena oltre il muro col filo spinato. Oltre il rigoglioso giardino - il gazebo, l’orto, la serra, una piccola piscina - s’intravedono i massicci caseggiati dai tetti rossi, più in lontananza le ciminiere dei crematori. A tratti si sentono ordini brutali, grida e spari, senza che tutto ciò turbi la tranquilla routine della famiglia: governo della casa, ufficio, scuola, visite di amici, picnic sulle rive del fiume, cavalcate nei boschi, qualche festicciola.
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“Tutte le famiglie felici sono uguali”, così il famoso incipit di Anna Karenina. Non sappiamo se Tolstoj confermerebbe dopo aver visto La zona d’interesse.
Auschwitz, 1943. Rudolf Hoss, inventore e comandante del campo di sterminio, abita con la moglie Hedwig e i cinque figli, un villino appena oltre il muro col filo spinato. Oltre il rigoglioso giardino - il gazebo, l’orto, la serra, una piccola piscina - s’intravedono i massicci caseggiati dai tetti rossi, più in lontananza le ciminiere dei crematori. A tratti si sentono ordini brutali, grida e spari, senza che tutto ciò turbi la tranquilla routine della famiglia: governo della casa, ufficio, scuola, visite di amici, picnic sulle rive del fiume, cavalcate nei boschi, qualche festicciola. Una famiglia normale, mediamente felice. Il campo quasi non c’è. Quando la vite sarà cresciuta sul muro, non si vedrà più nulla.
Jonathan Glazer – autore e regista – ci presenta un’Auschwitz domestica. Nello studio di Rudolf i rappresentanti della ditta Topf & Söhne illustrano le meraviglie d’efficienza dei nuovi crematori. L’ufficiale conta sulla scrivania le mazzette di marchi e dollari rubate ai deportati. La pelliccia di visone che Hedwig prova soddisfatta allo specchio ha la stessa provenienza. Il concime che fa crescere così rigogliose azalee e girasoli è la cenere dei forni; la stessa che purtroppo disturba le gite al fiume dei ragazzi. Internata è naturalmente l’amante di Rudolf; e forse anche Hedwig si concede parallele distrazioni.
Tante volte l’olocausto è stato raccontato dal punto di vista dei carnefici: convinto o sofferto atto d’ufficio, oppure privato sadismo. La zona d’interesse ne scopre invece la dimensione di sogno borghese realizzato. Rudolf è un ottimo direttore d’impresa. Organizzatore, maestro della logistica, seleziona e gestisce il personale per le necessità della produzione bellica, occupandosi della peculiari procedure di licenziamento richieste dai suoi capi. Unisce la sensibilità all’efficienza, imponendo alle SS di rispettare i lillà quale elemento di decoro del Campo. Hedwig, chiamata dal marito la regina di Auschwitz,ha talento per l’architettura da giardino.
A dispetto del cosiddetto male assoluto, Auschwitz è contingente ai possibili significati del termine umanità. Hedwig e Rudolf sono umanità-natura allo stato puro che segue gli scopi che si è data, usando i mezzi a disposizione. Selezione naturale prodotta dal nazismo, ma i due si sarebbero comunque distinti nel comunismo di Stalin o nel capitalismo più estremo. In qualunque società individualista o materialista retta dalla mancanza di amore.
Hannah Arendt scrisse che Heichmann “non capì mai cosa stava facendo”; mancava di idee e immaginazione, e ciò lo predispose ai suoi crimini. Concluse che “carenza di idee e lontananza della realtà possono essere molto più pericolosi degl’istinti malvagi innati nell’uomo”. Gli Hoss hanno obiettivi, personalità, capacità e determinazione. Danno l’impressione di capire, coltivano idee e pianificano il futuro. Sono in grado di immaginare un mondo diverso, ma questo semplicemente non li interessa. La mancanza di malvagità non li sottrae dalle azioni più abiette.
Sul finire del ‘43 Rudolf, viene trasferito ad altro incarico, ma insieme alla moglie fa di tutto per restare. Il villino al di là del muro è il loro ideale. Non abitano l’inferno per caso o ubbidienza. Credono sia il paradiso. L’hanno costruito e combattono per mantenerlo. Ci sono molti che voglionoAuschwitz al posto loro.
Glazer ci invita a leggere la trama dal rovescio. Il grazioso villino è lo specchio delle baracche, delle camere a gas e dei crematori, da cui differisce per estetica, per sostituzione del grigio con i colori: non per sostanza. Gli Hoss non solo fanno parte di Auschwitz, ma in un certo senso ne sono il centro. Sono il motore dell’orrore, per il comando di lui, naturalmente, ma di più per la mentalità che incarnano, senza la quale il Campo sarebbe inconcepibile.
E anche se si tentasse di non capirlo c’è uno strano suono che li accompagna. Una nota angosciante fa da sfondo a molte scene, lacerando il velo delle apparenze. Un suono indefinibile, ora percepibile come lo strazio delle vittime, ora stridente, ora monotono e crescente avanzare della macchina dello sterminio. Anche un verso demoniaco di Erinni che invocano vendetta. Forse è proprio la voce del Campo, che grida più di ogni immagine alla quale – anche se non dovremmo – ormai siamo abituati.
Arriva in visita la madre di lei, antisemita convinta, ma dopo una notte nella stanza delle ragazze con vista sul rosseggiare inestinguibile dei camini, scappa all'alba. Lascia una lettera - un avviso, un allarme dall'esterno - ma Hedwig la getta nel fuoco indispettita.
La distanza storica comporta sempre dei rischi valutativi. Chi sarebbero Rudolf e Hedwig oggi? Magari dei rispettati imprenditori, residenti in una splendida masseria, che impiegano braccianti extracomunitari pagati 20 euro al giorno per sedici ore di lavoro.
E insieme alla responsabilità personale, e penale, probabilmente ne esiste una collettiva, o politica. A cosa servono film come La zona d’interesse? In generale, che senso ha coltivare la Memoria? Di solito rispondiamo: perché non si ripeta. Ma sappiamo di mentire. Quando la Memoria non è un mestiere, al meglio è una confortante illusione. E intanto Auschwitz continua funzionare indisturbato in molti luoghi del mondo. Affittiamo un villino sul litorale del canale di Sicilia, facciamo una vacanza in resort su quelle spiagge, nascosti dietro il muro del mare. Ma il vento ci porta il sinistro lamento dei barconi, oppure l’eco dei campi di concentramento libici che noi – repubblicani e democratici – abbiamo contribuito a costruire attraverso i nostri rappresentati.
Arendt diffidava da quelli che cercano un Eichmann in ciascuno di noi, temendo che ciò potesse giustificare i veri Eichmann. Ma forse dopo tre generazioni l’esercizio potrebbe tornare utile. Non sappiamo cosa sia il male, né dove risiedano le sue radici. Le troppe sfaccettature – dal sadismo alla distrazione – ci confondono. Del bene però sappiamo che è molto esigente. Non c'è alcun bene in una casa tranquilla, in una famiglia serena, in un buon giro di amicizie, se non si cerca e riconosce l’inferno che c’è fuori, adoperandosi - avrebbe detto Italo Calvino - a dare spazio a ciò che inferno non è.
Sono così comuni gli abitanti dell’inferno? Coloro che lo accettano fino a diventarne parte e finiscono per non vederlo? Nel finale, Rudolf va a una festa da ballo con altri ufficiali nazisti, sale nel loggiato del grande salone e pensa a come si potrebbero gasare tutti i partecipanti. Ancora l’assenza di giudizio morale: la ragione come mero ordinamento dei mezzi ai fini. Gasare ebrei o commilitoni, non differisce. Il lavoro ben riuscito - l’ordine - è l’unica morale. Che tipo di ordine o lavoro, non ha importanza.
Più tardi, uscendo dall’ufficio, ha dei conati di vomito; come se di fronte all’assenza di spirito, e a un’intelligenza cieca, il corpo rimanesse l’unica/ultima sentinella a difesa del bene. Il corpo come autonoma fonte etica. E si aprirebbe, in parallelo, una lettura freudiana del vomito: una scissione dentro il protagonista, con l’inconscio che emerge e si ribella. Dura un minuto. Rudolf si riprende e va verso l’uscita. Verso il destino suo e delle sue vittime.
Nelle ultime sequenze vediamo Auschwitz adesso, mentre il personale fa le pulizie. Il perpetrarsi dell'ordine maniacale e l’allusione al lavoro che rende liberi: Arbeit macht frei letto a rovescio, come rovesciata era la B della famosa scritta sul cancello. Il lavoro come sfiancamento e annientamento spirituale, la libertà come morte. Le addette alle pulizie, nel tirare a lucido pavimenti e vetri, replicano i gesti dell'orrore, ma allo stesso tempo si comportano in maniera normale. Si lavora e si fa pulizia a Auschwitz come in ogni altro posto. E del resto, come si dovrebbe? Pregando, piangendo, stando in ginocchio? Il lavoro è lavoro, e va fatto comunque. E poi ci sono tutte le altre cose della nostra vita. Solo perché siamo ad Auschwitz dovremmo dimenticare la spesa, il mutuo, le prossime vacanze? La Memoria è occasionale, frequentata per brevi momenti, in assenza di pensieri più urgenti. Sotto questa luce, Auschwitz è un posto quasi qualunque.
Cos'è il Campo dopo ottant’anni? Un museo che stacca biglietti come il Louvre o gli Uffizi? Una struttura produttiva, come l'aveva pensata il suo inventore? Un'attrazione turistica attraversata da scolaresche distratte dagli smartphone? La montagna delle scarpe dietro le vetrate è un’installazione post moderna?
Glazer rileggendo liberamente l’omonimo romanzo, dirige una pellicola significativa, il cui soggetto eccede necessariamente l’opera in sé. Ottima Sandra Huller (Hedwig) nei panni della donna di umili origini ascesa ai fasti della borghesia. Della colonna sonora di Mica Levi, asse portante del film, si è già detto.
Rudolf Hoss fu tra i più capaci artefici della soluzione finale. Nonostante i meriti, non andò oltre il grado di tenente colonnello delle SS; come il suo superiore Eichmann che lamentò continuamente quest’ingiustizia durante il processo. Nella primavera del ’44, a guerra di fatto persa, Hoss venne incaricato dello sterminio di circa 800.000 ebrei ungheresi. L’operazione, battezzata in suo onore Hoss Action, venne eseguita con la consueta efficienza, nonostante i russi alle porte. Fuggito e poi catturato dagli inglesi, testimoniò a Norimberga, fu processato nel ‘47 dalla Corte Suprema di Varsavia e impiccato nel piazzale di Auschwitz. Hedwig Hoss morirà nel 1989 negli Stati Uniti dove si era trasferita con la figlia.
Uno degli psichiatri che visitò Adolf Eichmann nel ‘61, prima del famoso processo a Gerusalemme, dichiarò che l’ufficiale nazista era perfettamente normale, “più normale di quello che sono io dopo averlo visitato”.
Dovremmo provare qualcosa di simile mentre scorrono i titoli di coda.
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antonello villani
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domenica 19 maggio 2024
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un''opera gelida e bellissima
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Gelido come l’inverno di cui parla la protagonista nel film. Alla banalità dovremmo aggiungere la freddezza, il male non smette mai di stupirci. Jonathan Glazer prova (e ci riesce) a dare una lettura nuova del periodo più buio che la storia ricordi. Nessuno aveva osato tanto, raccontare la Shoah in assenza della Shoah. Se “Il bambino con il pigiama a righe” aveva già portato sullo schermo la vita di una famiglia trasferita a pochi passi da un campo di sterminio, “La zona di interesse” si spinge oltre grazie all’assenza degli elementi filmici sull’Olocausto. La telecamera del regista inglese non varca il cancello con l’insegna in ferro battuto e non è testimone di alcuna violenza, preferisce mantenersi in uno spazio altro, indefinibile e perennemente sospeso tra l’inferno del lager e il paradiso di una villetta con piscina.
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Gelido come l’inverno di cui parla la protagonista nel film. Alla banalità dovremmo aggiungere la freddezza, il male non smette mai di stupirci. Jonathan Glazer prova (e ci riesce) a dare una lettura nuova del periodo più buio che la storia ricordi. Nessuno aveva osato tanto, raccontare la Shoah in assenza della Shoah. Se “Il bambino con il pigiama a righe” aveva già portato sullo schermo la vita di una famiglia trasferita a pochi passi da un campo di sterminio, “La zona di interesse” si spinge oltre grazie all’assenza degli elementi filmici sull’Olocausto. La telecamera del regista inglese non varca il cancello con l’insegna in ferro battuto e non è testimone di alcuna violenza, preferisce mantenersi in uno spazio altro, indefinibile e perennemente sospeso tra l’inferno del lager e il paradiso di una villetta con piscina. L’esistenza della famiglia Hoss scorre tranquilla, nuotate nel fiume e tavole imbandite en plein air sono lo specchio di un quotidiano idilliaco, solo il roseto risulta di accecante contrasto con il muro spinato del campo. Camini accesi tutto il giorno -emblematica la scena con i burocrati che illustrano i progetti di forni crematori e camere di raffreddamento-, vasche da bagno da pulire con olio di gomito perché la cenere è insopportabile, persino agli aguzzini in divisa. Le riprese con la pellicola negativa sono un virtuosismo registico di tutto rispetto, come i colpi di pistola che a intervalli regolari interrompono la quiete domestica. Glazer si serve di quei rumori sordi per dare ritmo ad una colonna sonora soffocante, opprimente come i claustrofobici corridoi della residenza immersa nei colori primaverili. Spiazzante il finale con il comandante del lager che confessa alla moglie di voler gassare gli ospiti di una festa. I conati di vomito sono un rigurgito di coscienza? Chiusura perfetta con il museo degli orrori ai giorni nostri: gli addetti alla pulizia spazzano i pavimenti delle camere a gas e lucidano le vetrate delle sale con gli oggetti sottratti ai deportati. Un’immagine che, nemmeno tanto velatamente, vorrebbe essere un tentativo di lavare la coscienza per un crimine che a quasi un secolo di distanza l’umanità tutta non è riuscito ancora ad elaborare.
Carmine Antonello Villani
(Salerno)
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antonello villani
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lunedì 20 maggio 2024
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Gelido come l’inverno di cui parla la protagonista nel film. Alla banalità si accompagna la freddezza, il male non smette mai di stupirci. Jonathan Glazer prova (e ci riesce) a dare una lettura nuova del periodo più buio che la storia ricordi. Nessuno aveva osato tanto, raccontare la Shoah in assenza della Shoah. Se “Il bambino con il pigiama a righe” aveva già portato sullo schermo la vita di una famiglia trasferita a pochi passi da un campo di sterminio, “La zona di interesse” si spinge oltre per la mancanza degli elementi filmici sull’Olocausto. La telecamera del regista inglese non varca il cancello con l’insegna in ferro battuto e non è testimone di alcuna violenza, preferisce mantenersi in uno spazio altro, perennemente sospeso tra l’inferno del lager e il paradiso di una villetta con piscina.
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Gelido come l’inverno di cui parla la protagonista nel film. Alla banalità si accompagna la freddezza, il male non smette mai di stupirci. Jonathan Glazer prova (e ci riesce) a dare una lettura nuova del periodo più buio che la storia ricordi. Nessuno aveva osato tanto, raccontare la Shoah in assenza della Shoah. Se “Il bambino con il pigiama a righe” aveva già portato sullo schermo la vita di una famiglia trasferita a pochi passi da un campo di sterminio, “La zona di interesse” si spinge oltre per la mancanza degli elementi filmici sull’Olocausto. La telecamera del regista inglese non varca il cancello con l’insegna in ferro battuto e non è testimone di alcuna violenza, preferisce mantenersi in uno spazio altro, perennemente sospeso tra l’inferno del lager e il paradiso di una villetta con piscina. L’esistenza della famiglia Hoss scorre tranquilla, nuotate nel fiume e tavole imbandite en plein air sono lo specchio di un quotidiano idilliaco, solo il roseto adiacente la casa risulta di accecante contrasto con il muro spinato del campo. Camini accesi tutto il giorno -emblematica la scena con i burocrati che illustrano i progetti di forni crematori e camere di raffreddamento-, vasche da bagno da pulire con olio di gomito perché la cenere è insopportabile, persino agli aguzzini in divisa. Le riprese con la pellicola negativa sono un virtuosismo registico di tutto rispetto, come i colpi di pistola che a intervalli regolari interrompono la quiete domestica. Glazer si serve di quei rumori sinistri per dare ritmo ad una colonna sonora soffocante, opprimente come i claustrofobici corridoi della residenza immersa nei colori primaverili. Spiazzante il finale con il comandante del lager che confessa alla moglie di voler gassare gli ospiti di una festa. I conati di vomito sono un rigurgito di coscienza? Chiusura perfetta con il museo degli orrori ai giorni nostri: gli addetti alla pulizia spazzano i pavimenti delle camere a gas e lucidano le vetrate delle sale con gli oggetti sottratti ai deportati. Un’immagine che, nemmeno tanto velatamente, vorrebbe essere un tentativo di lavare la coscienza per un crimine che a quasi un secolo di distanza l’umanità tutta non è riuscito ancora ad elaborare.
Carmine Antonello Villani
(Salerno)
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