kosir
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mercoledì 29 gennaio 2025
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sovrastimato
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Il film affronta, ovviamente, temi profondamente disturbanti: la banalità del male, la disumanizzazione infinita, l'assurda normalità di dinamiche aberranti. La scelta di una narrazione asettica, quasi clinica, risulta efficace nel mettere in luce questi aspetti. Tuttavia, lo stile della scrittura, seppur funzionale allo scopo di rappresentare l'orrore in modo distaccato, rende la visione faticosa e rischia di allontanare lo spettatore. Pur riconoscendo il pregio di affrontare queste tematiche in modo diverso, soprattutto per interrogarsi sulle responsabilità individuali e collettive che hanno portato all'Olocausto, si fatica a rimanere coinvolti fino alla fine.
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Il film affronta, ovviamente, temi profondamente disturbanti: la banalità del male, la disumanizzazione infinita, l'assurda normalità di dinamiche aberranti. La scelta di una narrazione asettica, quasi clinica, risulta efficace nel mettere in luce questi aspetti. Tuttavia, lo stile della scrittura, seppur funzionale allo scopo di rappresentare l'orrore in modo distaccato, rende la visione faticosa e rischia di allontanare lo spettatore. Pur riconoscendo il pregio di affrontare queste tematiche in modo diverso, soprattutto per interrogarsi sulle responsabilità individuali e collettive che hanno portato all'Olocausto, si fatica a rimanere coinvolti fino alla fine. Non è una questione di "schiaffi" necessari per comprendere il dramma, ma di un coinvolgimento emotivo che fatica a nascere. È solo un parere personale.
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jean
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venerdì 10 gennaio 2025
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tra la banalit? ? il male.
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Polonia, anni quaranta. Rudolf Höss e la sua famiglia vivono nella quotidianità all'interno della cosiddetta "zona di interesse", in un area vicino al campo di concentramento di Auschwitz.
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Polonia, anni quaranta. Rudolf Höss e la sua famiglia vivono nella quotidianità all'interno della cosiddetta "zona di interesse", in un area vicino al campo di concentramento di Auschwitz. La moglie Hedwig (Sandra Hüller) cura il giardino, mentre il marito Höss (interpretato da Christian Friedel) è il comandante del campo di concentramento.
La famiglia trascorre le loro giornate tranquille in piscina o andando a pescare, sembrerebbe lo spaccato di una vita e di una routine comune, ma a pochi passi, oltre il muro, si consuma l'orrore….
La Zona di Interesse (2023) di Jonathan Glazer, vincitore del premio Oscar 2024 come migliore pellicola straniera, ha dato risalto a tutta la sua creatività e il suo estro.
Questa pellicola é un misto tra capolavoro e tecnica con stili differenti, é non comuni, iniziando dal sonoro ché potrebbe già da qui spiazzare lo spettatore, dove é più abituato vedere un film, piuttosto che ascoltarlo, il regista non voleva far vedere, ma sentire gli "orrori“.
Altro tema è stato l’uso della termocamera,(inusuale da vedere in un film) tanto da farci scorgere il lavoro notturno della bambina da un altra prospettiva, dove la bambina nasconde le mele nel fossato, laddove il giorno dopo i prigionieri del campo devono lavorare.
Sapiente é stato il montaggio, che è molto ritmato e bilanciato così da contrastare "i tanti tempi morti“ del film o delle scene lunghe,oppure le scene senza dialoghi, usando stacchi netti e avvolte molto veloci, tanto da non accorgersi della trama lenta.
Il Cast e molto fresco ma alla altezza della performance. Ottima le colonne sonore di Mica Lievi che da un tocco di inquietudine nel punto giusto.
La conclusione é di non aspettarsi un film convenzionale della Shoah o come i film simili,perché alla fine potrebbe deludere le aspettative,ma di aspettarsi un film più creativo con una visione d’autore.
Sicuramente del emergente regista inglese si sentirà ancora parlare di lui.
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ivan il matto
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martedì 8 ottobre 2024
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contiguità con l''orrore
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Tutto sembrava già visto, tutto già rappresentato, da "Schindler's List" a "Il Pianista", da "La vita è bella" al "Bambino con il pigiama a righe" eravamo convinti che la Shoah al cinema fosse stata scandagliata a fondo. Invece no! Jonathan Glazer e la sua pluripremiata "Zona d'interesse" aggiungono un ulteriore tassello, un'altra stazione nell'indagine sul "male assoluto". Tratto dal romanzo di Martin Amis e girato effettivamente ad Auschwitz, il film, agghiacciante e serafico insieme, inquadra la vita quotidiana del reale comandante del campo e della sua numerosa famigliola, in una villetta con giardino e piscina ai margini dello stesso.
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Tutto sembrava già visto, tutto già rappresentato, da "Schindler's List" a "Il Pianista", da "La vita è bella" al "Bambino con il pigiama a righe" eravamo convinti che la Shoah al cinema fosse stata scandagliata a fondo. Invece no! Jonathan Glazer e la sua pluripremiata "Zona d'interesse" aggiungono un ulteriore tassello, un'altra stazione nell'indagine sul "male assoluto". Tratto dal romanzo di Martin Amis e girato effettivamente ad Auschwitz, il film, agghiacciante e serafico insieme, inquadra la vita quotidiana del reale comandante del campo e della sua numerosa famigliola, in una villetta con giardino e piscina ai margini dello stesso. Fin dall'inizio, comunque,l'autore ci mette in guardia con la schermo nero attraversato da suoni inequivocabili sull'attività del campo, quasi a dirci che la pellicola va considerata più per quello che non si vede che per quanto narrato in chiaro. Se non "La banalità del male" (ogni occasione e' buona per citare Hannah Arendt), la contiguità con lo stesso: casa e ufficio le pertinenze dell'orrore, cenere di resti umani per la serra e denti d'oro per i giochi dei piccoli, l'insieme collocato nella stessa zona d'interesse che circondava Auschwitz nell'arco di circa 25 km. Doveroso segnalare una messa in scena gelida e impersonale che non prevede primi piani ma solo campo medio dove giganteggiano Christian Friedel ("Il nastro bianco" di Michael Haneke) e Sandra Huller ("Anatomia di una caduta" di Justine Triet). Forse il regista (recente premio Oscar) lancia un monito anche alla contemporaneità di noi europei; la nostra zona d'interesse tecnologica oggi comprende luoghi drammaticamente conflittuali come la striscia di Gaza o l'Ucraina, anche noi viviamo una contiguità con l'orrore?....Anche noi abitiamo in quella villa così asettica ed elegante?!?!....
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zelig62
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martedì 3 settembre 2024
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giudizio negativo
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Film fatto male, le scelte estetiche del regista sono discutibili. Troppo lento, manca un racconto, una storia. L'ennesimo film acclamato dalla critica ma deludente. Ne sconsiglio la visione.
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coatto ungarettiano
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giovedì 18 luglio 2024
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com''è?
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felicity
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venerdì 14 giugno 2024
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il male, così vicino, così lontano
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La zona d’interesse è un’opera ipnotica e dalla narrazione a suo modo serrata che racconta la mostruosità dell’Olocausto.
Un capolavoro assoluto che, dietro le apparenze, va oltre la questione trattata e investe la percezione della contemporaneità.
Lavora sulla rappresentazione delle piccole cose della vita quotidiana, che spesso sono le cose belle, e dà grande densità a una narrazione minimale per mezzo di un enorme lavoro di regia: taglio e composizione delle inquadrature, lavoro sulla profondità di campo e sul montaggio, fondamentale nel rendere il ritmo serrato. Un film che per certi aspetti sembra bucolico ed edificante, se non fosse che racconta il quotidiano del comandante del campo di sterminio di Auschwitz, che viveva lì accanto con moglie e figli, in una casa graziosa e con giardino.
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La zona d’interesse è un’opera ipnotica e dalla narrazione a suo modo serrata che racconta la mostruosità dell’Olocausto.
Un capolavoro assoluto che, dietro le apparenze, va oltre la questione trattata e investe la percezione della contemporaneità.
Lavora sulla rappresentazione delle piccole cose della vita quotidiana, che spesso sono le cose belle, e dà grande densità a una narrazione minimale per mezzo di un enorme lavoro di regia: taglio e composizione delle inquadrature, lavoro sulla profondità di campo e sul montaggio, fondamentale nel rendere il ritmo serrato. Un film che per certi aspetti sembra bucolico ed edificante, se non fosse che racconta il quotidiano del comandante del campo di sterminio di Auschwitz, che viveva lì accanto con moglie e figli, in una casa graziosa e con giardino.
Un piccolo paradiso luminoso, verde e fiorito. Dietro al muro s’intravedono vagamente le ciminiere dei forni crematori. Quasi rimossi dal campo visivo. E già molto è detto con questo: si può rimuovere anche quello che si vede. Anzi, perfino quello che si fa si può non vederlo. Si può far finta di non vedere, di non aver capito.
Se è vero che il cinema è sguardo, qui diventa una questione chiave, analizzata da una prospettiva molto originale, che al suo interno racchiude anche la questione del rimosso.
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francog
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venerdì 24 maggio 2024
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tanto clamore per nulla
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film che si basa sul contrasto di un orrore al di la' del giardino di casa ed al di qua una normale famiglia borghese. Piu' o meno la vita di tutti noi e dei nostri tempi.
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antonello villani
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lunedì 20 maggio 2024
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un''opera gelida e bellissima
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Gelido come l’inverno di cui parla la protagonista nel film. Alla banalità si accompagna la freddezza, il male non smette mai di stupirci. Jonathan Glazer prova (e ci riesce) a dare una lettura nuova del periodo più buio che la storia ricordi. Nessuno aveva osato tanto, raccontare la Shoah in assenza della Shoah. Se “Il bambino con il pigiama a righe” aveva già portato sullo schermo la vita di una famiglia trasferita a pochi passi da un campo di sterminio, “La zona di interesse” si spinge oltre per la mancanza degli elementi filmici sull’Olocausto. La telecamera del regista inglese non varca il cancello con l’insegna in ferro battuto e non è testimone di alcuna violenza, preferisce mantenersi in uno spazio altro, perennemente sospeso tra l’inferno del lager e il paradiso di una villetta con piscina.
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Gelido come l’inverno di cui parla la protagonista nel film. Alla banalità si accompagna la freddezza, il male non smette mai di stupirci. Jonathan Glazer prova (e ci riesce) a dare una lettura nuova del periodo più buio che la storia ricordi. Nessuno aveva osato tanto, raccontare la Shoah in assenza della Shoah. Se “Il bambino con il pigiama a righe” aveva già portato sullo schermo la vita di una famiglia trasferita a pochi passi da un campo di sterminio, “La zona di interesse” si spinge oltre per la mancanza degli elementi filmici sull’Olocausto. La telecamera del regista inglese non varca il cancello con l’insegna in ferro battuto e non è testimone di alcuna violenza, preferisce mantenersi in uno spazio altro, perennemente sospeso tra l’inferno del lager e il paradiso di una villetta con piscina. L’esistenza della famiglia Hoss scorre tranquilla, nuotate nel fiume e tavole imbandite en plein air sono lo specchio di un quotidiano idilliaco, solo il roseto adiacente la casa risulta di accecante contrasto con il muro spinato del campo. Camini accesi tutto il giorno -emblematica la scena con i burocrati che illustrano i progetti di forni crematori e camere di raffreddamento-, vasche da bagno da pulire con olio di gomito perché la cenere è insopportabile, persino agli aguzzini in divisa. Le riprese con la pellicola negativa sono un virtuosismo registico di tutto rispetto, come i colpi di pistola che a intervalli regolari interrompono la quiete domestica. Glazer si serve di quei rumori sinistri per dare ritmo ad una colonna sonora soffocante, opprimente come i claustrofobici corridoi della residenza immersa nei colori primaverili. Spiazzante il finale con il comandante del lager che confessa alla moglie di voler gassare gli ospiti di una festa. I conati di vomito sono un rigurgito di coscienza? Chiusura perfetta con il museo degli orrori ai giorni nostri: gli addetti alla pulizia spazzano i pavimenti delle camere a gas e lucidano le vetrate delle sale con gli oggetti sottratti ai deportati. Un’immagine che, nemmeno tanto velatamente, vorrebbe essere un tentativo di lavare la coscienza per un crimine che a quasi un secolo di distanza l’umanità tutta non è riuscito ancora ad elaborare.
Carmine Antonello Villani
(Salerno)
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antonello villani
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domenica 19 maggio 2024
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un''opera gelida e bellissima
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Gelido come l’inverno di cui parla la protagonista nel film. Alla banalità dovremmo aggiungere la freddezza, il male non smette mai di stupirci. Jonathan Glazer prova (e ci riesce) a dare una lettura nuova del periodo più buio che la storia ricordi. Nessuno aveva osato tanto, raccontare la Shoah in assenza della Shoah. Se “Il bambino con il pigiama a righe” aveva già portato sullo schermo la vita di una famiglia trasferita a pochi passi da un campo di sterminio, “La zona di interesse” si spinge oltre grazie all’assenza degli elementi filmici sull’Olocausto. La telecamera del regista inglese non varca il cancello con l’insegna in ferro battuto e non è testimone di alcuna violenza, preferisce mantenersi in uno spazio altro, indefinibile e perennemente sospeso tra l’inferno del lager e il paradiso di una villetta con piscina.
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Gelido come l’inverno di cui parla la protagonista nel film. Alla banalità dovremmo aggiungere la freddezza, il male non smette mai di stupirci. Jonathan Glazer prova (e ci riesce) a dare una lettura nuova del periodo più buio che la storia ricordi. Nessuno aveva osato tanto, raccontare la Shoah in assenza della Shoah. Se “Il bambino con il pigiama a righe” aveva già portato sullo schermo la vita di una famiglia trasferita a pochi passi da un campo di sterminio, “La zona di interesse” si spinge oltre grazie all’assenza degli elementi filmici sull’Olocausto. La telecamera del regista inglese non varca il cancello con l’insegna in ferro battuto e non è testimone di alcuna violenza, preferisce mantenersi in uno spazio altro, indefinibile e perennemente sospeso tra l’inferno del lager e il paradiso di una villetta con piscina. L’esistenza della famiglia Hoss scorre tranquilla, nuotate nel fiume e tavole imbandite en plein air sono lo specchio di un quotidiano idilliaco, solo il roseto risulta di accecante contrasto con il muro spinato del campo. Camini accesi tutto il giorno -emblematica la scena con i burocrati che illustrano i progetti di forni crematori e camere di raffreddamento-, vasche da bagno da pulire con olio di gomito perché la cenere è insopportabile, persino agli aguzzini in divisa. Le riprese con la pellicola negativa sono un virtuosismo registico di tutto rispetto, come i colpi di pistola che a intervalli regolari interrompono la quiete domestica. Glazer si serve di quei rumori sordi per dare ritmo ad una colonna sonora soffocante, opprimente come i claustrofobici corridoi della residenza immersa nei colori primaverili. Spiazzante il finale con il comandante del lager che confessa alla moglie di voler gassare gli ospiti di una festa. I conati di vomito sono un rigurgito di coscienza? Chiusura perfetta con il museo degli orrori ai giorni nostri: gli addetti alla pulizia spazzano i pavimenti delle camere a gas e lucidano le vetrate delle sale con gli oggetti sottratti ai deportati. Un’immagine che, nemmeno tanto velatamente, vorrebbe essere un tentativo di lavare la coscienza per un crimine che a quasi un secolo di distanza l’umanità tutta non è riuscito ancora ad elaborare.
Carmine Antonello Villani
(Salerno)
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nino raffa
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mercoledì 15 maggio 2024
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una famiglia felice
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“Tutte le famiglie felici sono uguali”, così il famoso incipit di Anna Karenina. Non sappiamo se Tolstoj confermerebbe dopo aver visto La zona d’interesse.
Auschwitz, 1943. Rudolf Hoss, inventore e comandante del campo di sterminio, abita con la moglie Hedwig e i cinque figli, un villino appena oltre il muro col filo spinato. Oltre il rigoglioso giardino - il gazebo, l’orto, la serra, una piccola piscina - s’intravedono i massicci caseggiati dai tetti rossi, più in lontananza le ciminiere dei crematori. A tratti si sentono ordini brutali, grida e spari, senza che tutto ciò turbi la tranquilla routine della famiglia: governo della casa, ufficio, scuola, visite di amici, picnic sulle rive del fiume, cavalcate nei boschi, qualche festicciola.
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“Tutte le famiglie felici sono uguali”, così il famoso incipit di Anna Karenina. Non sappiamo se Tolstoj confermerebbe dopo aver visto La zona d’interesse.
Auschwitz, 1943. Rudolf Hoss, inventore e comandante del campo di sterminio, abita con la moglie Hedwig e i cinque figli, un villino appena oltre il muro col filo spinato. Oltre il rigoglioso giardino - il gazebo, l’orto, la serra, una piccola piscina - s’intravedono i massicci caseggiati dai tetti rossi, più in lontananza le ciminiere dei crematori. A tratti si sentono ordini brutali, grida e spari, senza che tutto ciò turbi la tranquilla routine della famiglia: governo della casa, ufficio, scuola, visite di amici, picnic sulle rive del fiume, cavalcate nei boschi, qualche festicciola. Una famiglia normale, mediamente felice. Il campo quasi non c’è. Quando la vite sarà cresciuta sul muro, non si vedrà più nulla.
Jonathan Glazer – autore e regista – ci presenta un’Auschwitz domestica. Nello studio di Rudolf i rappresentanti della ditta Topf & Söhne illustrano le meraviglie d’efficienza dei nuovi crematori. L’ufficiale conta sulla scrivania le mazzette di marchi e dollari rubate ai deportati. La pelliccia di visone che Hedwig prova soddisfatta allo specchio ha la stessa provenienza. Il concime che fa crescere così rigogliose azalee e girasoli è la cenere dei forni; la stessa che purtroppo disturba le gite al fiume dei ragazzi. Internata è naturalmente l’amante di Rudolf; e forse anche Hedwig si concede parallele distrazioni.
Tante volte l’olocausto è stato raccontato dal punto di vista dei carnefici: convinto o sofferto atto d’ufficio, oppure privato sadismo. La zona d’interesse ne scopre invece la dimensione di sogno borghese realizzato. Rudolf è un ottimo direttore d’impresa. Organizzatore, maestro della logistica, seleziona e gestisce il personale per le necessità della produzione bellica, occupandosi della peculiari procedure di licenziamento richieste dai suoi capi. Unisce la sensibilità all’efficienza, imponendo alle SS di rispettare i lillà quale elemento di decoro del Campo. Hedwig, chiamata dal marito la regina di Auschwitz,ha talento per l’architettura da giardino.
A dispetto del cosiddetto male assoluto, Auschwitz è contingente ai possibili significati del termine umanità. Hedwig e Rudolf sono umanità-natura allo stato puro che segue gli scopi che si è data, usando i mezzi a disposizione. Selezione naturale prodotta dal nazismo, ma i due si sarebbero comunque distinti nel comunismo di Stalin o nel capitalismo più estremo. In qualunque società individualista o materialista retta dalla mancanza di amore.
Hannah Arendt scrisse che Heichmann “non capì mai cosa stava facendo”; mancava di idee e immaginazione, e ciò lo predispose ai suoi crimini. Concluse che “carenza di idee e lontananza della realtà possono essere molto più pericolosi degl’istinti malvagi innati nell’uomo”. Gli Hoss hanno obiettivi, personalità, capacità e determinazione. Danno l’impressione di capire, coltivano idee e pianificano il futuro. Sono in grado di immaginare un mondo diverso, ma questo semplicemente non li interessa. La mancanza di malvagità non li sottrae dalle azioni più abiette.
Sul finire del ‘43 Rudolf, viene trasferito ad altro incarico, ma insieme alla moglie fa di tutto per restare. Il villino al di là del muro è il loro ideale. Non abitano l’inferno per caso o ubbidienza. Credono sia il paradiso. L’hanno costruito e combattono per mantenerlo. Ci sono molti che voglionoAuschwitz al posto loro.
Glazer ci invita a leggere la trama dal rovescio. Il grazioso villino è lo specchio delle baracche, delle camere a gas e dei crematori, da cui differisce per estetica, per sostituzione del grigio con i colori: non per sostanza. Gli Hoss non solo fanno parte di Auschwitz, ma in un certo senso ne sono il centro. Sono il motore dell’orrore, per il comando di lui, naturalmente, ma di più per la mentalità che incarnano, senza la quale il Campo sarebbe inconcepibile.
E anche se si tentasse di non capirlo c’è uno strano suono che li accompagna. Una nota angosciante fa da sfondo a molte scene, lacerando il velo delle apparenze. Un suono indefinibile, ora percepibile come lo strazio delle vittime, ora stridente, ora monotono e crescente avanzare della macchina dello sterminio. Anche un verso demoniaco di Erinni che invocano vendetta. Forse è proprio la voce del Campo, che grida più di ogni immagine alla quale – anche se non dovremmo – ormai siamo abituati.
Arriva in visita la madre di lei, antisemita convinta, ma dopo una notte nella stanza delle ragazze con vista sul rosseggiare inestinguibile dei camini, scappa all'alba. Lascia una lettera - un avviso, un allarme dall'esterno - ma Hedwig la getta nel fuoco indispettita.
La distanza storica comporta sempre dei rischi valutativi. Chi sarebbero Rudolf e Hedwig oggi? Magari dei rispettati imprenditori, residenti in una splendida masseria, che impiegano braccianti extracomunitari pagati 20 euro al giorno per sedici ore di lavoro.
E insieme alla responsabilità personale, e penale, probabilmente ne esiste una collettiva, o politica. A cosa servono film come La zona d’interesse? In generale, che senso ha coltivare la Memoria? Di solito rispondiamo: perché non si ripeta. Ma sappiamo di mentire. Quando la Memoria non è un mestiere, al meglio è una confortante illusione. E intanto Auschwitz continua funzionare indisturbato in molti luoghi del mondo. Affittiamo un villino sul litorale del canale di Sicilia, facciamo una vacanza in resort su quelle spiagge, nascosti dietro il muro del mare. Ma il vento ci porta il sinistro lamento dei barconi, oppure l’eco dei campi di concentramento libici che noi – repubblicani e democratici – abbiamo contribuito a costruire attraverso i nostri rappresentati.
Arendt diffidava da quelli che cercano un Eichmann in ciascuno di noi, temendo che ciò potesse giustificare i veri Eichmann. Ma forse dopo tre generazioni l’esercizio potrebbe tornare utile. Non sappiamo cosa sia il male, né dove risiedano le sue radici. Le troppe sfaccettature – dal sadismo alla distrazione – ci confondono. Del bene però sappiamo che è molto esigente. Non c'è alcun bene in una casa tranquilla, in una famiglia serena, in un buon giro di amicizie, se non si cerca e riconosce l’inferno che c’è fuori, adoperandosi - avrebbe detto Italo Calvino - a dare spazio a ciò che inferno non è.
Sono così comuni gli abitanti dell’inferno? Coloro che lo accettano fino a diventarne parte e finiscono per non vederlo? Nel finale, Rudolf va a una festa da ballo con altri ufficiali nazisti, sale nel loggiato del grande salone e pensa a come si potrebbero gasare tutti i partecipanti. Ancora l’assenza di giudizio morale: la ragione come mero ordinamento dei mezzi ai fini. Gasare ebrei o commilitoni, non differisce. Il lavoro ben riuscito - l’ordine - è l’unica morale. Che tipo di ordine o lavoro, non ha importanza.
Più tardi, uscendo dall’ufficio, ha dei conati di vomito; come se di fronte all’assenza di spirito, e a un’intelligenza cieca, il corpo rimanesse l’unica/ultima sentinella a difesa del bene. Il corpo come autonoma fonte etica. E si aprirebbe, in parallelo, una lettura freudiana del vomito: una scissione dentro il protagonista, con l’inconscio che emerge e si ribella. Dura un minuto. Rudolf si riprende e va verso l’uscita. Verso il destino suo e delle sue vittime.
Nelle ultime sequenze vediamo Auschwitz adesso, mentre il personale fa le pulizie. Il perpetrarsi dell'ordine maniacale e l’allusione al lavoro che rende liberi: Arbeit macht frei letto a rovescio, come rovesciata era la B della famosa scritta sul cancello. Il lavoro come sfiancamento e annientamento spirituale, la libertà come morte. Le addette alle pulizie, nel tirare a lucido pavimenti e vetri, replicano i gesti dell'orrore, ma allo stesso tempo si comportano in maniera normale. Si lavora e si fa pulizia a Auschwitz come in ogni altro posto. E del resto, come si dovrebbe? Pregando, piangendo, stando in ginocchio? Il lavoro è lavoro, e va fatto comunque. E poi ci sono tutte le altre cose della nostra vita. Solo perché siamo ad Auschwitz dovremmo dimenticare la spesa, il mutuo, le prossime vacanze? La Memoria è occasionale, frequentata per brevi momenti, in assenza di pensieri più urgenti. Sotto questa luce, Auschwitz è un posto quasi qualunque.
Cos'è il Campo dopo ottant’anni? Un museo che stacca biglietti come il Louvre o gli Uffizi? Una struttura produttiva, come l'aveva pensata il suo inventore? Un'attrazione turistica attraversata da scolaresche distratte dagli smartphone? La montagna delle scarpe dietro le vetrate è un’installazione post moderna?
Glazer rileggendo liberamente l’omonimo romanzo, dirige una pellicola significativa, il cui soggetto eccede necessariamente l’opera in sé. Ottima Sandra Huller (Hedwig) nei panni della donna di umili origini ascesa ai fasti della borghesia. Della colonna sonora di Mica Levi, asse portante del film, si è già detto.
Rudolf Hoss fu tra i più capaci artefici della soluzione finale. Nonostante i meriti, non andò oltre il grado di tenente colonnello delle SS; come il suo superiore Eichmann che lamentò continuamente quest’ingiustizia durante il processo. Nella primavera del ’44, a guerra di fatto persa, Hoss venne incaricato dello sterminio di circa 800.000 ebrei ungheresi. L’operazione, battezzata in suo onore Hoss Action, venne eseguita con la consueta efficienza, nonostante i russi alle porte. Fuggito e poi catturato dagli inglesi, testimoniò a Norimberga, fu processato nel ‘47 dalla Corte Suprema di Varsavia e impiccato nel piazzale di Auschwitz. Hedwig Hoss morirà nel 1989 negli Stati Uniti dove si era trasferita con la figlia.
Uno degli psichiatri che visitò Adolf Eichmann nel ‘61, prima del famoso processo a Gerusalemme, dichiarò che l’ufficiale nazista era perfettamente normale, “più normale di quello che sono io dopo averlo visitato”.
Dovremmo provare qualcosa di simile mentre scorrono i titoli di coda.
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