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Io sono ancora qui è un'opera preziosa. Dove il sorriso diventa un grande gesto politico contro la ferocia

Walter Salles incide il dramma nella nostra pelle di spettatori con un film sulla resilienza, sulla dignità, sulla forza di una donna. E ti fa stare attaccato agli occhi di Fernanda Torres, ti fa stringere in un abbraccio il suo dolore composto, per tutti i minuti del film. Dal 30 gennaio al cinema.  
di Giovanni Bogani

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Fernanda Torres (Fernanda Pinheiro Monteiro Torres) (59 anni) 14 settembre 1965, Rio de Janeiro (Brasile) - Vergine. Interpreta Eunice da giovane nel film di Walter Salles Io sono ancora qui. Al cinema da giovedì 30 gennaio 2025.
giovedì 30 gennaio 2025 - Focus

I desaparecidos, sì. Vecchia storia, ti viene da dire. Li abbiamo già conosciuti, al cinema, con Garage Olimpo di Marco Bechis, film straordinario, feroce e asciutto. Perché dovremmo tornare a occuparcene? Sappiamo che cosa è successo, immaginiamo il dolore che possa aver causato. Da qualche parte, lontano. In America latina, mica qui da noi. E invece, doppio sbaglio. Perché Io sono ancora qui ti fa stare attaccato agli occhi di Fernanda Torres, ti fa stringere in un abbraccio il suo dolore composto, mai esibito, per tutti i minuti del film. E perché Io sono ancora qui parla di un mondo lontano che è maledettamente vicino al nostro. Poteva esser capitato a noi.

Siamo in Brasile, nel 1970. Per noi, il Brasile del 1970 è quello di Pelé. E con lui, la nazionale verdeoro più forte di tutti i tempi: Rivelino, Jairzinho, Tostao, Clodoaldo. Il Brasile del 1970 è l’Everest della civiltà, per chi ama il calcio. E anche per i brasiliani, economicamente, era la “epoca boa”, quella del boom. Non riesci facilmente a pensare che potessero esserci prigioni, grida sorde di torturati dietro le porte chiuse, persone portate via da casa e fatte scomparire in un buco nero della Storia. Non riesci a pensare che il Brasile fosse un mattatoio come, pochi anni più tardi, il Cile di Pinochet, e poco dopo l’Argentina del generale Videla. Altri corridoi, altre torture, altri desaparecidos. E, nell’Argentina del ’78, altri campioni di calcio, Passarella e Kempes, ad alzare la coppa del mondo, a fare miracoli con la palla fra i piedi, mentre a pochi metri di distanza altri giovani come loro morivano.

Su quest’altra pagina, meno conosciuta forse, quella delle violenze del regime brasiliano, delle repressioni, dei desaparecidos di Rio de Janeiro, Walter Salles fa un film prezioso, non solo e non tanto per l’assunto storico/politico, ma per la vita che ci sta dentro, per l’attenzione che pone a ricostruire il mondo che racconta. E per come, senza far alzare mai la voce ai suoi protagonisti, sa incidere quel dramma nella nostra pelle di spettatori.

Fernanda Torres, madre e matriarca di una famiglia a cui viene strappato il padre, non alza mai la voce, non si fa mai vedere mentre piange, non cede mai alla disperazione. Un’interpretazione da brividi, ripensandoci non capisci come non abbia vinto la Coppa Volpi a Venezia, lo scorso settembre. Agli Oscar sarà ancora più dura (anche se ha già vinto il Golden Globe): ma lo meriterebbe. Intorno, un Brasile che Walter Salles costruisce in modo che sembra quasi di sentirne i sapori, gli odori, la temperatura dell’aria. Le spiagge di Rio luminose davanti al Pan de Azucar, cagnolini che corrono e ragazze che si versano la Coca cola sulle gambe, per abbronzarsi. La casa borghese spaziosa – nell’avenida Delfim Moreira, nella Rio de Janeiro più residenziale – casa piena di libri, dove le figlie entrano a piedi scalzi, e la figlia maggiore è un po’ hippie alla europea, pazza per il cinema e la musica. Una realtà mangiata a morsi con una cinepresa super8, la figlia maggiore Veroca ha la passione di filmare. E noi spettatori vediamo i suoi home movies, con la grana giusta della pellicola, i colori smerigliati, da caleidoscopio, che avevano quelle riprese.

Walter Salles sa bene che, di quegli anni ’70, oggi abbiamo soltanto qualche fotografia e qualche home video, oltre ai grigi telegiornali di Stato. E mescola bene le sue carte, ci fa entrare – insieme al direttore della fotografia Adrian Tejido – davvero in quel mondo. È una fotografia luminosa, un mondo che vien quasi da toccarlo. E quei rapidi tocchi che annunciano il buio: un elicottero che passa troppo basso sulla spiaggia, i camion dei soldati che passano vicino alle case. E i ragazzi fermati, mentre vanno in macchina, un posto di blocco in un tunnel. La brutalità dei militari, le armi che appaiono. Lo spavento dei ragazzi.

Non ha nessuna fretta di fare accadere l’Inevitabile, però, Salles. Non ha fretta di fare bussare qualcuno alla porta, i militari in borghese, per dire al padre che deve seguirli. Perché il centro del film è nella forza, nella coesione, nella dignità della famiglia che il film racconta: non nella ferocia lugubre e burocratica degli aguzzini di Stato.
 


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In foto Fernanda Torres in una scena del film.

Salles costruisce un mondo – il Brasile del 1970 – e la vita di una famiglia con la stessa minuzia, lo stesso rispetto che aveva Cuarón quando ha raccontato la sua famiglia borghese in Roma (guarda la video recensione). E sono molti i punti di contatto fra i due film: la casa borghese col garage, un marito che – in circostanze diverse – scompare, una madre che si ritrova a tenere fra le mani i fragili equilibri di una famiglia, una donna delle pulizie che assiste, innocente e solidale, alla lotta della famiglia per non sprofondare. In entrambi i film, il mare è il luogo nel quale cercare sollievo, liberazione, pacificazione. E in entrambi i film ci sono ragazzi che marciano e cantano canzoni militari con parole che fanno paura.

Ma se in Cuarón tutto veniva visto, sentito, sofferto dalla ragazza delle pulizie, una meravigliosa e irripetibile Yalitza Aparicio, qui siamo più vicini agli occhi, alle mani, alla compostezza accorta, alla forza sommessamente indomita di una monumentale Fernanda Torres. C’è un altro aspetto, forse non troppo sottolineato, di questo film: raccontando la compostezza di tutti i figli, la loro maturità, il loro altruismo, il loro humour, Salles racconta la forza, la dignità assoluta della borghesia urbana progressista. La vera classe sociale sconfitta in questi anni, altrettanto brutali di quelli di mezzo secolo fa. 

Il marito che viene arrestato è un ingegnere, la sua casa è piena di libri e di affetto per i figli, la moglie quando rimane da sola si iscrive all’università, e riuscirà a laurearsi a 48 anni; le figlie vanno a studiare all’estero. È la stessa classe sociale che da qualche anno vive sotto attacco, screditata in tutto il mondo. Salles, raccontando la storia di un desaparecido, ma soprattutto della sua famiglia, dice che è da loro che occorre ricominciare.

Non è banalmente schematico il film di Salles, non fa agire i “cattivi” come pupazzi, come marionette. Il militare che va a sorvegliare la madre, e che la piantona lì con altri due commilitoni, è tuttavia un po’imbarazzato. Il militare più giovane gioca a calciobalilla con il figlio maschio: sembrano tutti travolti da qualcosa di più grande di loro. Indicativo, nella sua ironia, un dialogo fra Fernanda Torres e il capo dei militari che la sorvegliano: “E lei che cosa fa nella vita?” “Sono specialista in parapsicologia”, dice lui. Negli anni ’70, andava di gran moda. Un piccolo segnale: anche fra i carnefici c’erano persone.

“Sorridete!”. La madre, quando una rivista viene a fare un servizio fotografico sulla famiglia dell’ex deputato scomparso, dice a tutti i figli di sorridere. “Non potete fare un’espressione più seria?” dice il fotografo. “Il direttore ci ha detto che dovreste…” “…Essere tristi?” dice lei, beffarda. E si ribella. Nella foto, ridono tutti. Il sorriso come ultima difesa, come atto di fierezza. Non ci avrete. Non mi avete fatto niente. Quanto è alto, il tasso di cose non dette, nel film di Salles, che conosce bene quella vicenda – portata in un libro da Marcelo Rubens Pavia – e quelle persone: sono stati i suoi amici d’infanzia, quella famiglia. Aveva quattordici anni, Salles, quando accadevano gli eventi che il suo film racconta.

Se pensi agli altri ottimi film della cinquina per il miglior film internazionale, viene da metterlo vicino a Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof. Anche in quel caso, si parla di un regime, molto più vicino nel tempo, e di una famiglia. Solo che nel caso del film di Rasoulof il pater familias è connivente col regime, e questo fa esplodere la famiglia. Qui, è il regime che strappa via il pater familias ai suoi figli. Ma la famiglia rimane tenace, coesa, tosta. E nella foto, in tutte le numerose foto che ci sono nel film, sorride. È il sorriso l’ultimo, più profondo gesto politico del film.

Ah. L’ultima cosa. Nell’epilogo, ambientato nel 2014, girato con uno stile del tutto diverso, con la tremula fluidità delle riprese del telefonino, tanto da sembrare per un attimo “vera”, fatta con le persone reali protagoniste di quella storia, vediamo nel ruolo della madre un’icona assoluta del cinema brasiliano: Fernanda Montenegro, attrice 96enne. Era la protagonista di Central do Brasil, il film più celebre e più premiato di Salles, girato nel 1998, Orso d’oro a Berlino. Ed è la madre, nella vita, di Fernanda Torres. In definitiva, Io sono ancora qui è un film sulla resilienza, sulla dignità, sulla forza di una donna. La brutalità di un regime è sullo sfondo, ma i veri vincitori sono coloro che sono riusciti a rimanere uniti, a non sfracellarsi umanamente ed emotivamente, di fronte a quella tragedia.


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